Perché Mosca bombarda Kiev alla vigilia del faccia a faccia Trump–Zelensky, e che cosa Putin vuole davvero dire…

Dieci ore di notte, la città che non dorme più, e poi l’alba con il fiato corto: Kiev colpita da un attacco massiccio, alla vigilia dell’incontro in Florida tra Donald Trump e Volodymyr Zelensky. Non è solo guerra: è linguaggio politico. La Russia, quando si avvicina un tavolo negoziale, non manda biglietti da visita: manda droni Shahed e missili Kinzhal.

I dati dell’attacco sono già un messaggio in sé: circa 500 droni e 40 missili, inclusi i balistici Kinzhal; almeno due morti e decine di feriti; infrastrutture civili e soprattutto energetiche colpite; una parte rilevante della capitale senza calore, con temperature invernali; oltre un milione di utenze rimaste senza elettricità nell’area di Kiev, con cifre aggiornate nel corso della giornata. 

Mosca non sceglie Kiev per caso, né sceglie quel momento per caso. Alla vigilia di un appuntamento “chiave” – Zelensky che va a Palm Beach per discutere la bozza di un piano di pace – la Russia alza la posta e prova a dettare il sottotesto: non è l’Ucraina a decidere tempi e condizioni del negoziato, e nemmeno l’Europa. È Putin che stabilisce il metronomo.

La prima ragione: mettere Trump davanti a un bivio

Il bombardamento è un test politico per Washington. Zelensky lo dice in modo brutale: “parlano i missili”. Ma, al di là della frase, l’obiettivo russo è chiaro: costringere Trump a scegliere che cosa vale di più, la rapidità di un accordo o il prezzo reputazionale di firmarlo mentre cadono Kinzhal sulla capitale ucraina. 

In altre parole, Putin suggerisce: se vuoi la pace, devi accettare che la pace la scriva io. E l’attacco, collocato a ridosso del vertice, serve a ricordare che Mosca conserva l’iniziativa e che può rendere qualsiasi calendario diplomatico un dettaglio.

La seconda ragione: dividere l’Occidente “prima” del tavolo

Zelensky, da Halifax, ha cercato di blindare la sponda occidentale: incontro con Mark Carney e una videoconferenza con i leader europei per coordinare posizioni e ottenere garanzie di sicurezza in vista di un eventuale accordo. Proprio questa regia – Europa dentro, Canada dentro, Ucraina non lasciata sola – è ciò che la Russia tenta di sabotare psicologicamente e politicamente. 

Un attacco che spegne luce e riscaldamento non parla soltanto ai leader: parla agli elettori europei e americani. Sussurra: vi costa caro sostenere Kiev; la stanchezza è un’arma; l’inverno è un amplificatore. È la vecchia guerra sul morale, aggiornata con droni a sciame.

La terza ragione: la rete elettrica come leva di negoziazione

L’energia è il punto più sensibile perché è “quotidiano” e “totale”: entra nella cucina, negli ospedali, nella metropolitana, nelle scuole. Colpire l’infrastruttura significa trasformare la guerra in una pressione di massa, e farlo prima di una trattativa significa presentarsi al tavolo con un vantaggio: posso aumentare o ridurre la sofferenza con un interruttore. 

È un modo per dire che le garanzie di sicurezza richieste da Kiev non sono un dettaglio negoziale, ma la differenza tra sopravvivere e congelare. E su questo punto, proprio, Trump e Zelensky arrivano al confronto con divergenze note: territori, Donbas, gestione della centrale di Zaporizhzhia, e soprattutto “quali garanzie”. 

La quarta ragione: la pace “non deve” sembrare una sconfitta russa

C’è poi la Russia interna. Un paese che, secondo sondaggi e racconti dal basso, appare stanco, ma non necessariamente disposto a trasformare la stanchezza in dissenso. In questo quadro, il Cremlino ha bisogno che qualsiasi esito negoziale sia leggibile come controllo, non come ripiegamento. Per Putin, la guerra è diventata parte del sistema nervoso del regime: mobilita élite, disciplina la società, giustifica repressione e spesa, crea dipendenze economiche. Se la pace arriva, deve arrivare come “risultato” di forza, non come resa alla pressione occidentale. 

Ecco perché l’attacco non è contraddittorio con i colloqui: è coerente. È la logica del “negoziare col martello in mano”.

Che cosa Putin vuole dire, in una frase

Vuole dire questo: la guerra è lo strumento con cui la Russia decide lo status dell’Ucraina. Non solo una questione di confini, ma di sovranità concreta: quanta autonomia, quanta sicurezza, quanta libertà di legarsi all’Occidente. Zelensky lo capisce e lo ripete: Mosca non punta solo a congelare il fronte; punta a lasciare l’Ucraina “in balia” della Russia. 

E per farlo, il Cremlino deve comunicare – a Trump, agli europei, agli ucraini e ai russi – che la Russia non tratta da supplice, ma da arbitro armato. È un messaggio brutale, ma lineare: prima si piega la realtà, poi si firma il documento.