C’è un racconto comodo, ripetuto con l’aria di chi distribuisce certificati di civiltà: i diritti umani sarebbero un dono dell’Occidente al mondo, e l’Occidente ne resterebbe l’unico custode legittimo. È una narrazione che consola chi la pronuncia, ma non regge quando la storia viene guardata senza lenti coloniali.

Per esempio: il più importante quadro giuridico internazionale contro il razzismo non nasce nei salotti dei vincitori, ma nel respiro ancora caldo della decolonizzazione. Nel 1963, nove Stati africani appena indipendenti portarono all’Assemblea generale dell’ONU una richiesta precisa: basta dichiarazioni generiche, serve un trattato vincolante contro la discriminazione razziale. Il rappresentante del Senegal lo disse senza giri di parole: in Africa coloniale e nel Sudafrica dell’apartheid la discriminazione non era una deviazione, era la regola. E se era la regola, bisognava costringere il mondo a guardarla in faccia.

Due anni dopo, l’ONU adottò all’unanimità la Convenzione internazionale sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale. Il testo – rivoluzionario nella sua sobrietà – respingeva ogni dottrina di superiorità razziale come falsa sul piano scientifico, ripugnante sul piano morale e ingiusta sul piano sociale. Non è solo un documento: è un atto di smascheramento. E soprattutto è un fatto storico: il “Sud globale” non è stato soltanto destinatario dei diritti, ma architetto di una parte decisiva del diritto internazionale.

Sessant’anni dopo, però, quel trattato sembra spesso un Vangelo senza lettori: proclamato, citato, ma contraddetto nella prassi. Il razzismo – e qui il punto è teologico prima che politico – non è semplicemente un’opinione cattiva: è una struttura che decide chi conta e chi no, chi è “persona” e chi è “scarto”. Lo vediamo nella polizia e nelle periferie, nelle politiche migratorie e nei luoghi di lavoro, nei tribunali e nelle prigioni, nelle tecnologie digitali che automatizzano la discriminazione e nei social che trasformano l’odio in intrattenimento.

Il meccanismo è sempre simile: si prende una categoria umana e la si riduce a problema. Migrante. Nero. Musulmano. “Clandestino”. Si sposta la paura su un volto preciso, e poi si chiama “sicurezza” ciò che è, più spesso, gerarchia. Il razzismo moderno, infatti, non ha bisogno di proclamarsi: gli basta organizzare la vita quotidiana in modo che alcuni abbiano accesso e altri no. È un peccato sociale, direbbe la tradizione cristiana: non solo colpa individuale, ma sistemache produce ingiustizia.

E qui torna la grande rimozione occidentale: le radici. Schiavitù, colonialismo, ideologie della superiorità, cancellazione di popoli indigeni, economie costruite sulla disuguaglianza: tutto archiviato come “passato”. Ma il passato non passa da solo. Se lo si nega, ritorna sotto forma di istituzioni sbilanciate, di ricchezze concentrate, di confini che selezionano, di memorie mutilate. È il paradosso: si celebra il diritto, ma si protegge l’eredità che lo rende necessario.

In questo quadro, sorprende fino a un certo punto che proprio dal Sud del mondo continuino a venire le iniziative più incisive: richieste di riparazioni, pressioni per riconoscere il colonialismo come crimine internazionale, mobilitazioni di massa per dire che la dignità non è negoziabile. È come se la coscienza del mondo, oggi, parlasse con un accento che l’Occidente fatica ad ascoltare. E forse è questo che irrita: non il contenuto, ma il fatto che venga da chi, secondo il vecchio schema, dovrebbe solo ringraziare.

Per la fede cristiana, la questione è limpida: l’uomo non è definito dal sangue, dal colore, dal passaporto o dal censo. È immagine di Dio. E chi discrimina l’immagine, ferisce il Creatore. Non è retorica: è antropologia teologica. E se l’Occidente vuole davvero dirsi “custode” dei diritti, deve accettare una conversione: smettere di raccontarsi come sorgente unica del bene, riconoscere i debiti della storia, ascoltare chi ha pagato il prezzo dell’ingiustizia e, soprattutto, adempiere alle promesse scritte nei trattati che applaude.

Perché un diritto non è un trofeo morale. È una responsabilità. E spesso, lo ricordiamo poco, fu proprio chi era stato umiliato a costringere il mondo a scriverlo.