A Genova, il 27 dicembre 2025, nove persone sono finite in custodia cautelare – con sequestri patrimoniali – nell’ambito di un’indagine della Direzione distrettuale antimafia e antiterrorismo: l’accusa — ancora tutta da provare in giudizio — è quella di aver “travestito” da aiuti umanitari un flusso di donazioni poi dirottato verso realtà collegate ad Hamas. Tra gli arrestati viene indicato Mohammad Hannoun, presidente dell’Associazione Palestinesi in Italia.  

Il punto, per chi scrive (e per chi legge), non è “Palestina sì / Palestina no”. Il punto è più ruvido: la truffa. Cioè l’atto di prendere la parola più fragile del vocabolario politico — aiuto — e trasformarla in un passepartout per l’opaco. Quando la solidarietà diventa un circuito, e il circuito diventa un alibi, la causa non è più causa: è merce. E qui scatta la doppia tragedia. La prima è giuridica: se il denaro finisce a un’organizzazione designata terrorista dall’Unione Europea (oltre che da Stati Uniti e Israele), non è “solo” frode; diventa un’altra cosa, molto più pesante, che la legge chiama con il suo nome.   La seconda è morale: perché ogni euro deviato produce due vittime, non una. Vittima è chi doveva ricevere aiuto; vittima è anche la credibilità di chi, in buona fede, manifesta o dona.

Hamas creato ad arte per dividere i Palestinesi

C’è un’ipocrisia più antica, che non assolve nessuno ma spiega molte cose. Perché Hamas non è piovuta dal cielo, né è un incidente di percorso nato “contro il destino”. Hamas nasce nel 1987, all’inizio della Prima Intifada, come espressione politico-militante dell’area islamista palestinese legata alla Fratellanza Musulmana; tra i fondatori viene comunemente indicato Ahmed Yassin (con Abdel Aziz al-Rantisi).  

Se “creare” significa fondare, la risposta è netta: ambienti palestinesi islamisti.  

Se invece “creare” significa rendere possibile, allora la storia diventa più scomoda: negli anni ’70-’80 Israele tollerò e in alcune fasi favorì (per scelta politica e di sicurezza) la crescita di reti islamiche e caritative a Gaza come contrappeso al nazionalismo laico dell’OLP/Fatah. È un tema discusso e documentato da molte ricostruzioni storiche e giornalistiche: non è una “prova di regia”, ma è il classico esempio di blowback, l’effetto boomerang della politica del “nemico del mio nemico”.  

La formula “Hamas per indebolire Abu Mazen (Mahmoud Abbas) e Fatah” è diventata, dopo il 7 ottobre 2023, una chiave interpretativa ricorrente: l’idea è che un fronte palestinese diviso renda più facile sostenere che “non c’è un interlocutore unico” per un processo politico. Molti osservatori israeliani e internazionali hanno descritto (con accenti diversi) come, per anni, la gestione di Gaza sia stata pensata anche in termini di contenimento e separazione tra Gaza e Cisgiordania. Non è una “sentenza storica”, ma è una lettura politicamente plausibile — e infatti controversa.  

Chi ha finanziato Hamas? Il ruolo di Israele

Qui bisogna distinguere: Hamas ha avuto finanziamenti plurimi nel tempo (donazioni private, reti caritative, sponsor statali, e anche tassazione/controllo dell’economia di Gaza dopo il 2007). Sul Qatar c’è un dato cruciale: dal 2018 in poi Doha ha inviato aiuti significativi a Gaza anche con modalità (in varie fasi) concordate/accettate per ragioni umanitarie e di “calma” — e questo è stato raccontato e discusso ampiamente, anche perché Israele ha spesso controllato i valichi e dunque, in pratica, ha potuto consentire o bloccare quei flussi.  

La versione più precisa è questa: non “Israele finanziava Hamas” in modo lineare, ma Israele ha autorizzato/agevolato in più occasioni trasferimenti di denaro (soprattutto qatariota) verso Gaza, sostenendo che servissero a evitare il collasso umanitario e comprare stabilità; critici israeliani e analisti, invece, hanno sostenuto che ciò abbia rafforzato Hamas e indebolito l’Autorità Palestinese. È un dibattito interno (anche durissimo) alla politica israeliana, non una leggenda metropolitana.  

E poi arriva il convitato di pietra: il 7 ottobre 2023, con crimini gravissimi che hanno cambiato tutto — anche la grammatica con cui l’opinione pubblica legge parole come “resistenza”, “sicurezza”, “solidarietà”.  

L’elzeviro, se ha un dovere, è una piccola crudeltà educativa: ricordare che le cause non santificano i mezzi, e che i mezzi corrompono le cause. La generosità, quando passa per le mani della geopolitica, deve diventare adulta: tracciabilità, contabilità, audit indipendenti, canali riconosciuti, separazione netta tra assistenza e militanza. Altrimenti il paradosso è perfetto (e perfettamente tragico): si parte dal pane per i bambini e si finisce a nutrire la guerra — o, almeno, il sospetto che la nutra. E il sospetto, nel nostro tempo, basta già a incendiare una piazza.