Ogni anno, a fine ottobre, l’Europa si concede una piccola sospensione del realismo: la zucca accesa alla finestra, i bambini travestiti, le maschere che provano a rendere domestica la paura. Halloween arriva puntuale, come una parentesi ludica dentro l’autunno. E subito riemerge la domanda: che farne? Liquidarlo come americanata commerciale? Assumerlo come innocuo gioco? O interrogare ciò che, sotto i travestimenti, resta inquieto e vivo?

La risposta – come spesso nella vita – sta nel modo giusto di guardare.

Perché Halloween, prima di essere marketing e gadget, è una domanda.

Non è la festa dei mostri:

è la festa di un’umanità che non sa più come guardare la morte e allora la traveste, la addomestica, la rende caricatura.

Un tempo, in queste giornate, le famiglie scrivevano nomi su biglietti, accendevano candele, camminavano tra lapidi silenziose. Oggi gli ipermercati hanno preso il posto dei cimiteri; eppure la nostalgia è la stessa. Perché dietro le maschere di plastica resta il bisogno di ricordare che siamo fragili, che non siamo padroni della notte, che la vita è più grande di noi.

Halloween è il tentativo – tutto moderno – di esorcizzare ciò che non si vuole più affrontare.

L’angoscia della fine diventa festa. Il brivido si fa estetica pop. La paura, confezionata e addolcita, diventa consumo.

Paura usa e getta, come un costume di cartone.

Ma il cristianesimo, da duemila anni, conosce un’altra via: non ridicolizzare la morte, ma attraversarla.

Non fare festa con il buio, ma accendere una luce.

È significativo che Halloween preceda nella liturgia la Solennità di Tutti i Santi e la Commemorazione dei defunti. Come se la Chiesa, in silenzio, suggerisse un passaggio:

dal rumore alla memoria,

dalla paura alla speranza,

dall’ignoto al volto.

Non per punire il gioco, ma per salvarne la domanda.

Il mondo contemporaneo è abilissimo a vendere emozioni e molto meno capace di proporre senso. Halloween funziona perché attiva l’adrenalina; i Santi restano perché accendono il desiderio. È facile giocare con le ombre; è più impegnativo ricordare che il nostro destino è la luce.

Non serve demonizzare i bambini travestiti né trasformare ogni ragno di gomma in un affare teologico. Basta custodire lo sguardo. Dire ai piccoli che va bene ridere dei mostri, purché imparino anche a pregare per i nonni. Far vedere loro che la vita non si ferma alla maschera: c’è un volto che li aspetta.

In fondo, ciò che differenzia un gadget da un rito non è la forma, ma la profondità del cuore.

Svuotiamo la morte di senso, e tornerà travestita da spettacolo.

La riconsegniamo alla speranza, e diventerà attesa.

Halloween passa.

Il 1° novembre resta.

Perché mentre le zucche si spengono, i lampioni dei cimiteri si accendono e le famiglie camminano lente tra nomi cari, portando fiori, parole, silenzi.

È questa la verità ultima che nessun marketing può copiare:

il male non ha l’ultima parola,

la vita è più forte della notte,

e non siamo fatti per spaventare… ma per risorgere.

E allora sì, i bambini possono pure bussare alle porte gridando “dolcetto o scherzetto”.

Purché noi adulti non smettiamo di bussare al Mistero, perché a quella porta, da secoli, Qualcuno risponde sempre allo stesso modo:

“Non temere. Io sono la Vita.”