C’è una frase, tra le molte pronunciate a Port-au-Prince, che riassume la misura della crisi: «Potremmo restare senza fondi entro fine mese». Non è l’allarme di una Ong qualunque. È l’avvertimento di Tom Fletcher, sottosegretario generale dell’Onu per gli Affari umanitari e coordinatore OCHA, dopo una giornata tra campi di sfollati, corsie d’ospedale e un centro giovanile a Delmas. Se la cassa si svuota, si ferma la vita: la vita dei pazienti gravi, delle donne vittime di stupro, dei neonati, dei ragazzi che cercano un’alternativa alle armi.

Haiti oggi è un Paese ostaggio di gang che hanno il quasi totale controllo della capitale, secondo l’Onu. La violenza ha ucciso migliaia di persone e spinto oltre 1,3 milioni di haitiani a lasciare le proprie case. Chi visita i ripari di fortuna vede corridoi stretti, letti improvvisati, latrine insufficienti, scuole cancellate dalla mappa. «Quello che si fa è importante, ma c’è ancora un vuoto enorme», ha detto Fletcher. Quel “vuoto” non è un concetto: è acqua potabile che manca, è un antibiotico che non arriva, è una ferita non suturata.

Nel mezzo dell’abbandono resiste l’Hôpital Universitaire La Paix, che l’Organizzazione mondiale della sanità definisce «faro di resilienza». È l’unico grande ospedale pubblico ancora in grado di gestire un alto numero di feriti, partorienti e vittime di violenza sessuale. Ma anche questo faro vacilla: senza nuovi finanziamenti entro fine settembre potrebbero spegnersi luci e macchinari. In un sistema sanitario già fragile, la chiusura di La Paix non sarebbe un episodio: sarebbe un collasso.

C’è però un’altra immagine, più discreta ma non meno decisiva: il centro giovanile di Delmas, avviato a giugno con fondi UNICEF e USIDHR. Offre ascolto, formazione professionale, uno spazio protetto ai ragazzi dei quartieri armati e agli adolescenti che vivono nei rifugi della cintura metropolitana. È poco, direbbe qualcuno. È esattamente ciò che serve, rispondiamo: un’alternativa concreta alla milizia, al reclutamento forzato, alla rassegnazione.

Perché è così importante insistere, proprio adesso? Per tre ragioni semplici.

  1. Il tempo è tiranno. Un’emergenza che dipende da fondi mensili è una roulette etica. Ogni “fine mese” riapre il rischio di sospendere cure, nutrizione, protezione. La prevedibilità dei finanziamenti non è burocrazia: è salvezza programmabile.
  2. La sicurezza non rimpiazza l’umanitario. Una missione internazionale che non sia accompagnata da servizi essenziali – acqua, salute, scuola, protezione – sposta i fronti ma non cambia i destini. La pace si prepara con le cure e con i libri almeno quanto con gli accordi.
  3. I giovani sono la linea del fronte giusta. Dove esiste un corso di falegnameria, una cucina comunitaria, una squadra sportiva, una borsa di studio, le gang perdono appeal. Gli investimenti su centri come Delmas sono prevenzione della violenza.

Haiti – che Mediafighter ascolta e racconta – conosce bene la spirale: crisi politica, economia informale armata, collasso dei servizi, “umanitario a singhiozzo”. In Haiti, la comunità internazionale ha responsabilità antiche e debiti recenti. Ma la prima responsabilità, oggi, è non lasciare a secco chi tiene in vita ciò che resta del tessuto sociale. Non bastano tweet di solidarietà o conferenze stampa: servono impegni vincolanti, fondi flessibili ma stabili, corridoi sicuri per medicine e personale, protezione per operatori e pazienti, monitoraggio pubblico dei flussi.

La Chiesa haitiana, le congregazioni, i laici impegnati lo ripetono da anni: si può ricostruire solo dal basso, con comunità che si organizzano e con istituzioni che non le tradiscono. In questo, l’appello di Fletcher non è solo contabile: è morale. Dice che la carità – intesa come amore politico – non può dipendere dall’ultimo bonifico.

C’è un’immagine evangelica che illumina il presente di Port-au-Prince: il buon samaritano che si ferma, fascia le ferite, paga l’osteria e promette di tornare. Non delega al caso, non anticipa solo la prima notte: garantisce continuità. Haiti ha bisogno di questo: che chi ha promesso torni, e che chi non c’era ancora arrivi. Perché quando un ospedale si spegne, quando un rifugio chiude, quando un’aula resta vuota, non perde solo Haiti: perdiamo tutti un pezzo di umanità condivisa.