La guerra tra Israele e Iran sta mutando forma. Da confronto diretto e spettacolare – centinaia di missili, droni e dichiarazioni roboanti – sta scivolando verso una guerra di qualità, che costringe a ripensare gli schemi classici della deterrenza nel Levante. E a farlo per primi, con efficacia chirurgica, sono stati gli iraniani.
Teheran ha capito ciò che a Gerusalemme – e forse anche a Washington – tarda a consolidarsi: l’escalation a bassa intensità, ma ad alta precisione, è molto più destabilizzante di un conflitto aperto. Con una manciata di missili balistici di nuova generazione, capaci di eludere Iron Dome, Arrow-3 e David’s Sling, l’Iran ha mostrato non solo potenza, ma intelligenza strategica. E, in un certo senso, anche compassione per il proprio stesso popolo: meno attacchi, meno rischio di rappresaglie devastanti, più impatto psicologico e reputazionale.
Israele è in trappola. E lo sa.
Tel Aviv sta affrontando una realtà scomoda: da sola, non regge. Non perché manchino armi, risorse o spie. Ma perché la guerra che l’Iran sta combattendo non è più solo simmetrica. È cyber, è psicologica, è interna.
Il fronte informatico, con l’uso da parte iraniana di videocamere civili israeliane per monitorare in tempo reale gli effetti dei propri attacchi, è solo il sintomo più evidente di un salto qualitativo: l’Iran non vuole solo distruggere, ma penetrare.
L’elemento più destabilizzante, per Israele, è l’incertezza interna, la consapevolezza crescente che le infiltrazioni, i tradimenti, i buchi di intelligence siano ormai parte integrante del suo problema di sicurezza nazionale.
A questo si aggiunge un fatto: la risposta israeliana – bombardamenti mirati su Isfahan e su presunte infrastrutture nucleari – ha avuto bisogno di una copertura logistica e diplomatica americana. Senza l’aviazione USA, senza la rete di satelliti e di basi nei Paesi arabi filo-occidentali, Israele non avrebbe mai potuto spingersi così lontano.
La presenza americana è il vero bersaglio
Non è un caso se l’Iran ha calibrato la sua reazione militare anche in funzione dell’ingerenza statunitense. La narrazione ufficiale di Teheran sta mutando: non è più solo “Israele l’aggressore”, ma “Israele come strumento dell’America debole”. E proprio in questa retorica si cela la nuova sfida geopolitica: se Washington interviene troppo, si espone; se resta alla finestra, perde il controllo dell’area.
In entrambi i casi, l’Iran guadagna posizioni.

La successione di Khamenei e la continuità dell’offensiva
La guerra non ha fermato i movimenti interni alla teocrazia iraniana. L’Ayatollah Khamenei, sempre più recluso in un bunker e sempre più diffidente verso il proprio apparato di sicurezza (dopo le infiltrazioni israeliane che hanno portato all’uccisione coordinata di alti comandanti), ha nominato tre possibili successori alla guida spirituale. Escludendo – a sorpresa – il figlio Mojtaba.
È un atto che conferma come l’Iran non voglia affidare la sua futura stabilità a una continuità familiare, bensì a una nuova leadership clericale capace di gestire l’asimmetria permanente del conflitto.
In questo contesto, la guerra serve anche a testare le future figure guida. Chi gestisce bene la crisi, sarà investito della futura guida.
Una guerra di nervi, più che di bombe
La strategia iraniana oggi non mira solo a resistere. Mira a disarmare psicologicamente Israele, ad umiliare diplomaticamente gli Stati Uniti, e a consolidare internamente il potere attraverso il culto della resistenza e l’adattamento tecnologico.
Israele, che ha vinto tante guerre in passato, rischia ora di perdere in un campo che non controlla: quello della percezione.
E l’America, ancora una volta, non può né andare via né restare impunemente.
Il futuro del Medio Oriente, in questa nuova fase, non sarà deciso dal numero di missili, ma dalla capacità di modellare il conflitto secondo parametri non convenzionali. E l’Iran, oggi, ha imparato meglio di altri questa nuova grammatica della guerra.