Nell’ultima domenica prima di Natale, Leone XIV esalta all’Angelus la figura di Giuseppe
Nel tempo dell’Avvento, quando l’attesa rischia di diventare impazienza e la fede si misura con l’incertezza, il Papa sceglie di fermare lo sguardo su una figura che non parla, ma decide: Giuseppe di Nazaret. Non un eroe, non un visionario, ma un uomo fragile e fallibile, come lo siamo tutti. È proprio questa normalità a renderlo decisivo nella storia della salvezza.
Il Vangelo lo definisce “uomo giusto”. Ma la giustizia di Giuseppe, come il Papa ha ricordato, non è quella rigida di chi applica la legge senza ascoltare la vita. È una giustizia abitata dalla misericordia. Di fronte a una situazione che lo ferisce e lo disorienta, Giuseppe non cerca lo scandalo, non invoca il diritto a umiliare, non pretende di avere ragione. Sceglie la via più silenziosa e più costosa: quella del rispetto dell’altro.
È qui che la sua osservanza religiosa rivela il suo senso più profondo. La Legge non è un alibi per difendere sé stessi, ma una scuola che educa il cuore a riconoscere il primato della misericordia. Giuseppe non sa ancora che Maria porta in grembo il Figlio di Dio; eppure si comporta già come se la vita dell’altro fosse più importante della propria reputazione. In questo, egli anticipa il Vangelo prima ancora di conoscerlo.
Quando poi Dio gli parla in sogno, Giuseppe compie il passo più arduo: rinuncia all’ultima sicurezza. Accogliere Maria significa consegnarsi a un futuro che non controlla più. Non riceve spiegazioni rassicuranti, ma una missione inattesa. E la accoglie con un atto di fede che Sant’Agostino riassume con parole essenziali: dalla sua pietà e dalla sua carità nasce, per il mondo, il Figlio di Dio.
Pietà e carità: due parole che oggi suonano deboli, quasi fuori tempo. E invece sono le virtù che reggono la storia quando la forza fallisce. Giuseppe non salva il mondo con il potere, ma con l’abbandono fiducioso. Non cambia il corso degli eventi, ma cambia il modo di attraversarli. È la forza mite che non occupa la scena e proprio per questo la sostiene.
Il Papa, indicando Giuseppe come compagno degli ultimi giorni di Avvento, suggerisce una conversione discreta ma radicale. In un tempo segnato da conflitti, giudizi sommari e parole che feriscono, Giuseppe educa a essere presepe per gli altri: spazio in cui la vita può essere accolta senza condizioni. Casa ospitale, non tribunale; luogo di speranza, non di condanna.
Il Natale, così, smette di essere un evento da celebrare e torna a essere una responsabilità da vivere. Ogni gesto di perdono, ogni parola che incoraggia, ogni atto di fiducia rinnovata diventa parte di quel presepe invisibile in cui Dio continua a cercare posto. Giuseppe ci insegna che accogliere Cristo significa, prima ancora, accogliere la realtà così com’è, affidandola alla Provvidenza.
In questo Avvento che volge al termine, la lezione dell’uomo di Nazaret è limpida: non serve comprendere tutto per credere, ma credere per poter andare avanti. E forse, oggi più che mai, la salvezza passa ancora attraverso uomini e donne che, come Giuseppe, scelgono di non fuggire dal mistero, ma di custodirlo.
