Quando i simboli cristiani sono ostentati o rimossi per politica ed ideologia

La polemica sul presepe a Genova non riguarda né l’albero di Natale né la sensibilità religiosa altrui. È lo specchio di una politica che, a destra come a sinistra, fatica a confrontarsi con il cristianesimo come evento storico fondativo e preferisce rifugiarsi in guerre simboliche: tra ostentazioni identitarie, inclusioni ideologiche e una nostalgia che il consumismo non riesce più a colmare.

La nuova sindaca di Genova si è trovata, suo malgrado, al centro di una polemica tanto rumorosa quanto rivelatrice: l’assenza iniziale del presepe a Palazzo Tursi. Il centrodestra, appena uscito sconfitto dal governo cittadino, ha rincarato la dose parlando persino di un albero di Natale “inadeguato” alla storia di Genova. Una polemica che colpisce più per il livore che per la sostanza, specie se proviene da un’area politica che non ha mai brillato, nella vita privata e familiare di molti suoi esponenti, per devozione, sobrietà o coerenza morale — tra scandali, corruzione e adulterî. Ma questo, si dirà, appartiene alla fragilità umana, non al cuore del problema.

Il punto, in realtà, è più profondo e più politico. Silvia Salis potrebbe — il condizionale è d’obbligo — rappresentare un possibile volto nuovo della sinistra italiana, persino una futura segretaria di partito. Una figura più credibile, più istituzionale, più morigerata rispetto all’attuale leadership del Partito Democratico. Salis è una madre di famiglia, non ostenta appartenenze ideologiche di nicchia, non fa della propria vita privata una bandiera politica permanente, non costruisce consenso attraverso simbolismi identitari.

Ed è qui che il confronto diventa inevitabile. Elly Schlein, attuale segretaria del PD, ha invece scelto consapevolmente l’ostentazione pubblica della propria convivenza omoaffettiva e un attivismo gender esplicito come parte integrante della propria proposta politica e comunicativa. Nessun giudizio morale sulle persone: il rispetto è dovuto sempre. Ma il rispetto non coincide con l’ostentazione, che è una scelta pubblica, rivendicata e interamente politica. E forse è proprio questa differenza a inquietare più di quanto si voglia ammettere.

Anche perché Genova, in queste settimane, è tornata a essere un nodo cruciale delle rivendicazioni dei lavoratori, con possibili effetti a catena sul resto del Paese. L’industria e la logistica portuale italiane si muovono senza un vero piano industriale, né strategico né tattico. E quando il conflitto sociale torna nei luoghi reali — cantieri, banchine, fabbriche — la politica preferisce rifugiarsi nelle guerre simboliche, più facili e meno compromettenti.

Con abilità mediatica, la sindaca ha comunque disinnescato la polemica: il presepe è stato portato a Palazzo Rosso, l’arcivescovo francescano conventuale Mauro Tasca lo ha benedetto, il villaggio di Natale è stato confermato e si è trovato uno sponsor per un vero e splendido albero. Ma il punto non era — e non è — il presepe.

Il punto è che, a destra come a sinistra, la politica sembra incapace di intercettare l’Italia reale, un’Italia che comprende anche gli immigrati, troppo spesso evocati come categoria ideologica e non come persone concrete. Si procede per stereotipi, per luoghi comuni, per orizzonti esistenziali ristretti, mai per una lettura storica e collettiva della realtà.

Si parla di inclusione e di rispetto delle altre religioni, alludendo quasi esclusivamente all’Islam. Eppure, proprio su polemiche analoghe, dovette intervenire anni fa l’imam della Grande Moschea di Roma, Nader Akkad, ricordando che i musulmani non sono affatto contrari al presepe né si sentono offesi dalla sua presenza. L’Islam nutre una profonda venerazione per la Vergine Maria, riconosciuta come vergine e impeccabile, e un grande rispetto per Gesù, fermandosi però alla sua dimensione profetica e non divina. Diversamente, sarebbero cristiani. I musulmani rifiutano le rappresentazioni di Maometto o di Allah, ma non quelle che non rientrano nel loro concetto di divinità e di rivelazione.

La polemica sul presepe, dunque, non è religiosa: è ideologica. Ed è qui che si rischia, a destra come a sinistra, di restare fuori dalla storia. Perché la storia — non la devozione, non il folklore — ci dice che in una periferia dell’impero romano, a Betlemme, nacque Gesù di Nazaret. Non un mito, ma un evento. Non un simbolo intercambiabile, ma un fatto che si colloca come centro e principio del mistero pasquale trinitario: quel kairós cristiano che ha informato il tempo, la cultura, il diritto, l’arte, la concezione stessa della persona.

Non è un caso che Benedetto Croce, laico e liberale, potesse affermare che non possiamo non dirci cristiani. Non per adesione confessionale, ma perché il cristianesimo ha strutturato l’alfabeto spirituale e morale dell’Europa. Le luci, gli alberi, san Nicola trasformato in Babbo Natale, i regali, gli auguri ridotti a convenzione cronologica e piegati al consumismo, nascono tutti da un mistero originario che viene sistematicamente rimosso.

Ma quella rimozione non cancella la nostalgia che il Natale porta con sé. Una nostalgia che nessuna adorazione del dio-quattrino potrà mai soddisfare. Perché sull’altare della speranza, della pace e della felicità non si offre il consumo, ma un Bambino. E questo, piaccia o no, resta un fatto storico prima ancora che teologico.