«Gaza sarà una miniera d’oro immobiliare». Con queste parole, pronunciate dal ministro delle Finanze israeliano Bezalel Smotrich a un summit immobiliare di Tel Aviv, si è oltrepassata una soglia morale che non può lasciare indifferenti. Parlare del “day after” della guerra non come di un percorso di pace o di giustizia, ma come di un affare economico da spartire con Washington, significa sancire la trasformazione della tragedia in business.

La Striscia, dove decine di migliaia di civili sono stati uccisi e dove centinaia di migliaia di sfollati sopravvivono senza casa, senza acqua, senza speranza, viene immaginata come un enorme cantiere edilizio, pronto a generare profitti. Non un luogo da ricostruire per ridare dignità a un popolo, ma un terreno da colonizzare, da dividere, da sfruttare. Il dolore, così, viene seppellito sotto i progetti di speculazione.

C’è una parola che torna con forza: disumanizzazione. Se i bambini morti diventano statistiche, le città rase al suolo diventano “occasioni immobiliari”. Gaza smette di essere patria di uomini e donne e diventa “enclave” da riassegnare. Così si alimenta l’idea che il conflitto non sia una tragedia, ma un’opportunità: non un crimine, ma un investimento.

Eppure, questa logica non nasce dal nulla. È il frutto di un discorso che da mesi presenta Gaza come terra vuota, “pulita” da chi la abitava. Prima la devastazione militare, poi l’esodo forzato, ora il mercato. È una sequenza che ricorda le peggiori pagine del colonialismo: terra bruciata, popolazioni cacciate, nuovi padroni pronti a spartirsi la ricchezza.

La comunità internazionale, se vuole conservare un minimo di credibilità, deve reagire a dichiarazioni simili non con silenzi imbarazzati ma con condanne chiare. Se Gaza diventerà davvero “una miniera d’oro”, significherà che la sofferenza palestinese è stata doppiamente calpestata: prima con le bombe, poi con la speculazione.

Queste parole, che suonano come uno schiaffo a chi piange i propri cari sotto le macerie, resteranno come testimonianza indelebile di quanto il potere possa spingersi a mercificare perfino le rovine della guerra. Gaza non è una miniera: è una ferita aperta. E trattarla come oro da scavare è il segno più lampante dell’abisso morale in cui stiamo precipitando.