Tregua a Gaza: migliaia di civili tornano verso le loro case mentre 600 camion di aiuti si preparano a entrare dal valico di Rafah. L’ONU annuncia un piano di emergenza per ricostruire e nutrire due milioni di persone. Tra la speranza e la paura, la marcia del ritorno diventa simbolo di una pace possibile.

Le immagini di Gaza di questi giorni parlano più di mille comunicati diplomatici. Migliaia di uomini, donne e bambini camminano lungo la costa, diretti verso nord, verso le loro case ridotte in macerie. È la marcia del ritorno, spontanea e silenziosa, segnata da canti, lacrime e speranza. Sullo sfondo, un cessate il fuoco che molti osano chiamare «storico» ma che, come sempre in Medio Oriente, porta con sé un fragile equilibrio tra tregua e incertezza.

L’accordo tra Israele e Hamas, mediato da Stati Uniti ed Egitto, prevede il rilascio degli ultimi ostaggi israeliani in cambio di oltre 1.900 prigionieri palestinesi e un parziale ritiro delle truppe israeliane. A Rafah, il valico tra Gaza ed Egitto, è previsto il ritorno alla piena operatività per consentire l’ingresso degli aiuti umanitari. Lì, secondo fonti delle Nazioni Unite, si stanno già preparando 600 camion al giorno carichi di cibo, medicine, tende, carburante e materiali per la ricostruzione.

Juliette Touma, portavoce dell’UNRWA, ha dichiarato che «le nostre squadre sono pronte. Abbiamo magazzini pieni, 6.000 camion pronti a entrare. Serve solo il via libera». È una frase che suona come un respiro dopo mesi di soffocamento: Gaza, da due anni, è in ginocchio. Fame diffusa, infrastrutture distrutte, interi quartieri rasi al suolo. Secondo l’ONU, oltre due milioni di persone — praticamente l’intera popolazione della Striscia — dipendono ormai da qualche forma di assistenza alimentare.

Il piano umanitario coordinato dalle Nazioni Unite nei primi 60 giorni della tregua mira a un intervento su larga scala: riattivare le reti idriche e fognarie, riaprire scuole per 700.000 bambini, creare centri sanitari mobili e inviare squadre mediche d’emergenza. Tom Fletcher, alto funzionario umanitario dell’ONU, ha dichiarato che «questo è il momento di raggiungere ogni famiglia in disperato bisogno. Siamo pronti a salvare vite, ma serve accesso sicuro, senza ostacoli».

Il segretario generale António Guterres ha ribadito la necessità di «un accesso completo, sicuro e sostenuto per gli operatori umanitari e la rimozione di ogni burocrazia che rallenti gli aiuti». Ha aggiunto: «Il silenzio delle armi non basta: bisogna ricostruire, nutrire, curare».

Ecco allora che, accanto alla marcia del popolo palestinese verso casa, prende forma una seconda marcia: quella dei camion dell’aiuto internazionale. Due processioni parallele — una di corpi, l’altra di beni — che raccontano la stessa sete di vita. Gaza, devastata e ferita, resta un simbolo vivente di resistenza e di sopravvivenza collettiva.

Ma la tregua, come sempre, resta precaria. Israele ha promesso di mantenere una «presenza limitata» all’interno della Striscia e ha ribadito che non rinuncerà al disarmo di Hamas. Dall’altra parte, Hamas continua a considerare la lotta armata come «resistenza legittima». La pace, dunque, resta sospesa tra un “ora” e un “non ancora”.

Eppure, qualcosa di nuovo si percepisce. La popolazione, stremata ma non piegata, non ha bisogno di proclami per comprendere il valore del cessate il fuoco. Lo misura nei gesti quotidiani: nell’acqua che torna a scorrere, nel pane che torna al forno, nel bambino che può finalmente dormire senza il boato delle esplosioni.

Tra gli operatori umanitari si respira una cauto ottimismo. «Ogni giorno senza bombardamenti è un giorno di vita», dice un medico palestinese che lavora con l’OCHA. «Ma la pace non sarà vera finché non potremo ricostruire le case, riaprire le scuole, e garantire dignità».

La vera sfida, allora, è trasformare la tregua in una riconciliazione sostenuta, in una pace che non sia solo cessazione delle ostilità ma rinascita civile. L’assistenza umanitaria non è una concessione: è un diritto. E il ritorno delle famiglie verso le loro case non è solo un fatto simbolico, ma un atto politico e spirituale insieme — il rifiuto di accettare che la guerra sia l’unica forma possibile di convivenza.

La storia di Gaza ci insegna che la pace non comincia con una firma, ma con un passo. E che ogni passo — anche tra le macerie — può diventare preghiera, testimonianza, profezia di una terra che non smette di cercare la vita.

mappa cammino gazawi