Quasi due anni di guerra, oltre 60.000 vite palestinesi spezzate, un territorio ridotto in macerie, un popolo alla fame. Eppure, Israele non ha sconfitto Hamas – l’obiettivo dichiarato – né ha offerto una vera visione di pace. Al contrario, il primo ministro Benjamin Netanyahu ha segnalato la volontà di prendere il controllo di Gaza ed espandere gli insediamenti. Una prospettiva che non risana, ma radicalizza.
Il mondo assiste sgomento mentre Gaza raggiunge un nuovo punto di rottura. Netanyahu fa balenare l’ipotesi di consegnare la Striscia a generiche “forze arabe”, ma intanto prepara i piani per l’occupazione diretta di Gaza City, rifiutando tanto Hamas quanto l’Autorità Palestinese. Il paradosso è amaro: l’Autorità, nata dagli Accordi di Oslo del 1994 come passo verso una soluzione politica, viene ora scartata insieme a qualsiasi possibilità di futuro politico per i palestinesi.
Il fallimento della logica dell’occupazione
Esperti israeliani come il generale Gadi Shamni avvertono che prendere il controllo diretto di Gaza non è solo strategicamente suicida, ma moralmente devastante. Significherebbe violare il diritto internazionale, perpetuare l’occupazione e infliggere punizioni collettive vietate dalle Convenzioni di Ginevra. Sarebbe l’ennesimo capitolo di una storia di sradicamento e cancellazione, che riduce persone e terra a pedine su una scacchiera di potere.
Non a caso, i governi arabi hanno chiarito che l’unica via percorribile è il ritorno dell’amministrazione all’Autorità Palestinese e l’apertura di un processo credibile verso lo Stato palestinese. Israele ha respinto entrambe le condizioni, irrigidendo lo stallo.
Una crisi non solo umanitaria, ma morale
Il quadro che arriva da Gaza è devastante: 500.000 persone in condizioni di carestia, 12.000 bambini sotto i cinque anni trattati solo a luglio per malnutrizione acuta, secondo i dati delle Nazioni Unite. Non basta dire che “si è evitata la morte di massa”: una generazione intera è segnata per sempre da fame, traumi e distruzione.
Qui l’insegnamento sociale cattolico è più che mai attuale: l’opzione preferenziale per i poveri ci ricorda che non possiamo essere indifferenti di fronte a chi soffre. A Gaza i “più piccoli” – in senso evangelico – muoiono davanti agli occhi del mondo. Non è soltanto un fallimento umanitario, è una crisi morale globale.
Politica e paura contro visione e compassione
Le manovre di Netanyahu sono anche dettate dalla necessità di mantenere in piedi la sua fragile coalizione di estrema destra. Ma il prezzo è altissimo: per i palestinesi significa assedio, sfollamento, carestia; per gli israeliani, insicurezza crescente e isolamento politico. La pace non nasce dall’espansione degli insediamenti, né dalla negazione di ogni prospettiva politica palestinese.
La tradizione profetica della Bibbia – che ebrei e cristiani condividono – ci insegna che pace e giustizia non possono essere piantate sulla terra bruciata. Non crescono dal terreno dell’occupazione. Il lamento deve lasciare il posto a una visione nuova: riconoscere lo status di Gaza come territorio sotto diritto internazionale, affermare il diritto all’autodeterminazione palestinese insieme alla sicurezza di Israele, aprire corridoi umanitari, proteggere i civili, sostituire la paura con la compassione.
La responsabilità dei credenti
Come cristiani non possiamo restare spettatori. Il Vangelo ci chiede di riconoscere nei volti affamati e stremati di Gaza l’immagine di Dio. “Ogni volta che avete fatto queste cose a uno dei miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Mt 25,40). Conquistare Gaza significa profanare non solo terra e pietre, ma la dignità stessa di un popolo.
La nostra chiamata è lavorare per la riconciliazione, la giustizia e la guarigione: denunciare con coraggio ciò che è ingiusto, sostenere chi soffre, alimentare la speranza. Tutto il resto, il silenzio complice o la giustificazione della violenza, ci rende partecipi della distruzione.