Israele ha intercettato la «Flottiglia della Resilienza Globale», bloccando con la forza tutte le imbarcazioni dirette a Gaza. Centinaia di attivisti, provenienti da 47 Paesi, sono stati arrestati e deportati su una nave da guerra. Una missione dichiaratamente pacifica, che trasportava medicinali, latte per bambini e viveri, è stata trattata come una minaccia militare. Gli organizzatori parlano senza mezzi termini di «crimine di guerra» e «rapimento illegale»: 443 persone di cui non si hanno notizie certe, strappate alle proprie navi in acque internazionali.
La verità dei fatti
Tra le imbarcazioni sequestrate figurano la Free Willy, Captain Nikos, Florida, All In, Karma, Mohammad Bhar, Deir Yassine, Aurora, Alma, Sirius. Di altre, come la MiaMia, Inana, Ahed Tamimi, Amsterdam, Ohwayla, Catalina, Estrella, Fair Lady, si sono perse le tracce: silenzio totale. Israele rivendica la “legittimità” del blocco, annunciando che anche l’ultima nave rimasta lontana sarà fermata. Ma qual è la colpa? Portare pane e acqua a chi muore di fame e di sete.
Le reazioni
Le reazioni non si sono fatte attendere: l’ONU chiede rispetto dei diritti umani, la Palestina denuncia la violazione del diritto internazionale, la Turchia parla di “atto terroristico”, la Malaysia di “totale disprezzo della coscienza del mondo”, il Sudafrica reclama il rilascio immediato. Perfino la Colombia è arrivata a espellere l’intera delegazione diplomatica israeliana.
E l’Italia? Divisa e ambigua. La premier Meloni liquida la flottiglia come “inutile per i palestinesi”. Il Ministero degli Esteri ammette che Israele ha “superato il diritto di difesa”, ma senza conseguenze concrete. Intanto nelle piazze si moltiplicano le proteste, con scioperi generali e manifestazioni di solidarietà.
La coscienza sequestrata
Qui non è in gioco solo la sorte di una flottiglia. È in gioco la coscienza del mondo. Impedire aiuti umanitari a un popolo affamato equivale a trasformare la fame in arma di guerra. Non è legittima difesa, è crudeltà criminale. Gaza, murata e bombardata, assomiglia oggi a un campo di prigionia a cielo aperto. E chi cerca di portare sollievo viene trattato da nemico.
Come cristiani, non possiamo tacere. “Ero affamato e mi avete dato da mangiare” (Mt 25). Non c’è giustificazione politica, militare o religiosa che possa cancellare queste parole. La memoria di padre Kolbe, lasciato morire di fame nel bunker di Auschwitz, torna a gridare dentro le coscienze: la fame usata come condanna è disumana, ieri come oggi.
La rotta da seguire
La flottiglia è stata sequestrata, ma la sua missione resta intatta: dimostrare che c’è un’umanità che non si arrende, che naviga ancora verso chi soffre. È questa rotta che dobbiamo seguire. Non per eroismo, ma per giustizia. Non per ideologia, ma per Vangelo. Non per Gaza soltanto, ma per non naufragare tutti nel mare della nostra indifferenza.