La carestia è ormai realtà a Gaza. Non lo dicono solo i volti emaciati dei bambini negli ospedali distrutti, ma la voce autorevole dell’IPC, l’organismo internazionale che certifica le crisi alimentari. Secondo i dati, oltre mezzo milione di persone nella Striscia vive condizioni catastrofiche: fame, malnutrizione acuta, morte.

Non è una siccità, non è un disastro naturale: è una carestia prodotta dall’uomo, aggravata dal blocco degli aiuti e dalla distruzione sistematica delle infrastrutture. Israele respinge le accuse, rivendicando sforzi umanitari e accusando Hamas di deviare i convogli. Ma la realtà sul terreno è sotto gli occhi di tutti: la popolazione costretta a spostarsi da una “zona sicura” all’altra, i camion di aiuti fermati o assaltati, i civili colpiti perfino mentre cercano un sacco di farina.

La fame è diventata arma di guerra. E questo non è solo un dramma palestinese, ma una minaccia al diritto internazionale nato dopo la Shoah con la promessa del “Mai più”. Non si può dimenticare che ad Auschwitz i nazisti rinchiudevano ebrei e prigionieri politici nel cosiddetto bunker della fame e della sete, condannandoli a una morte lenta e atroce. Oggi, a Gaza, quell’orrore sembra ripetersi a cielo aperto: non in un sotterraneo, ma su un intero popolo costretto a scegliere tra la vita e il pane.

Il parallelo è doloroso, ma inevitabile: allora la fame fu usata come strumento di annientamento nei lager; oggi viene usata come metodo di pressione collettiva, in flagrante violazione delle leggi umanitarie.

La domanda che resta è semplice e terribile: quanto ancora il mondo resterà a guardare?

schema carestia