La Bibbia racconta che a Gaza, proprio lì, Sansone morì cieco e incatenato, dopo essere stato schernito dai filistei. In quell’ultima ora, invocò la forza di Dio e abbatté le colonne del tempio, sacrificando se stesso e travolgendo i suoi oppressori. Era un gesto disperato, ma rimane un monito: non si può costruire gloria sulle macerie e sul sangue dei deboli senza che, prima o poi, le fondamenta crollino.
Oggi a Gaza, mentre bambini vengono amputati sotto i bombardamenti e famiglie intere muoiono di fame, circola un progetto da cento miliardi di dollari per trasformare quella striscia martoriata in una “Riviera del Medio Oriente”. Il dossier, rivelato dal Washington Post, si chiama con un acronimo accattivante – GREAT Trust – ed è un concentrato di linguaggio da Silicon Valley: hub tecnologici, smart city, intelligenza artificiale, hotel di lusso. Un futuro scintillante, ma senza i gazawi. Spostati, relegati, invitati ad andarsene “volontariamente” con una manciata di dollari in tasca.
È un’idea che ammicca allo slogan trumpiano Make America Great Again, e che promette ritorni economici da sogno. Ma resta una domanda terribile: quale senso ha immaginare resort e data center in Terra Santa, mentre la popolazione che lì abita da generazioni è ridotta a sopravvivere tra fame, macerie e lutti quotidiani?
Il paradosso è tutto qui: mentre il mondo si interroga se Gaza possa diventare la nuova Dubai, gli ospedali non hanno medicine, i bambini giocano tra le rovine con protesi al posto delle gambe, le madri scavano nella polvere per cercare i figli sotto le macerie. Questa non è “ricostruzione”: è la cancellazione di un popolo per sostituirlo con un business plan.
La Terra Santa è già stata violata troppe volte dal cinismo della politica e dall’avidità del denaro. Pensare di farne oggi un parco giochi per élite, sulle ossa dei palestinesi, è un’offesa non solo alla giustizia, ma alla coscienza credente di chi ancora osa chiamare quella terra “santa”.
Sansone a Gaza ci ricorda che nessun tempio costruito sull’oppressione regge a lungo. Forse è questa la voce che oggi si alza dalle macerie: un grido che chiede non resort, ma pane; non progetti patinati, ma pace; non business plan, ma il riconoscimento della dignità di un popolo.