Il “piano globale” in 20 punti annunciato da Donald Trump e condiviso con Benjamin Netanyahu si presenta come la soluzione definitiva al dramma di Gaza. Promette cessate il fuoco, aiuti immediati, ricostruzione delle infrastrutture e persino una prospettiva di Stato palestinese “in futuro”. Ma a leggere attentamente il documento, emergono più ombre che luci: non un cammino di pace condiviso, bensì un commissariamento internazionale della Striscia, con il rischio di ridurre i palestinesi a sudditi amministrati da altri, privati della loro dignità politica.

Un piano che esclude la politica

Il cuore del progetto è chiaro: Gaza sarà governata da un “comitato palestinese tecnocratico e apolitico” sotto la supervisione di un organismo internazionale – il “Board of Peace” – presieduto da Trump stesso, affiancato da figure come Tony Blair. Hamas viene esclusa, l’Autorità Nazionale Palestinese rimandata a un futuro imprecisato, mentre la governance locale viene sottratta a qualunque legittimazione democratica. In altre parole, ai palestinesi non viene chiesto di scegliere, ma di obbedire.

Pace condizionata

Il piano lega ogni passo a una serie di condizioni: liberazione di ostaggi, smilitarizzazione totale di Gaza, amnistia o esilio per i membri di Hamas, ritiro graduale dell’esercito israeliano solo dopo verifiche internazionali. La sequenza è tutta a vantaggio di Israele: prima le garanzie di sicurezza, poi – forse – i diritti palestinesi. Il riconoscimento di uno Stato è relegato all’ultimo punto, come aspirazione futura, non come obiettivo concreto.

La retorica della ricostruzione

Il documento abbonda di promesse economiche: zone speciali, investimenti, piani di sviluppo, posti di lavoro. È la logica del “peace for prosperity”, già proposta da Trump nel 2020 e già rifiutata dai palestinesi. Perché non si tratta di restituire un diritto – l’autodeterminazione – ma di offrire incentivi materiali in cambio della rinuncia a qualsiasi pretesa politica. Una pace fondata solo sul denaro è fragile, perché ignora la radice del conflitto: l’ingiustizia.

I nodi irrisolti

Due questioni restano fuori: Gerusalemme e le colonie israeliane in Cisgiordania. Parlare di “Nuova Gaza” senza affrontare l’occupazione più ampia significa proporre una soluzione parziale, incapace di rispondere alle vere rivendicazioni palestinesi. Inoltre, la supervisione di una “forza internazionale di stabilizzazione” guidata dagli Stati Uniti rischia di tradursi in una nuova forma di occupazione mascherata, dove la bandiera cambia ma la sostanza rimane: controllo esterno, non autodeterminazione.

Il giudizio morale

La Dottrina sociale della Chiesa ricorda che non c’è pace senza giustizia (cf. Gaudium et Spes 78). La pace non è l’assenza di bombe, ma il riconoscimento della dignità di ogni popolo. Per i palestinesi, ciò significa uno Stato vero, non un’amministrazione temporanea decisa da altri. Per gli israeliani, significa sicurezza fondata non sulla forza militare ma sulla riconciliazione.

Il piano Trump-Netanyahu congela il conflitto, ma non lo risolve. Può forse ridurre temporaneamente la violenza, ma rischia di perpetuare l’asimmetria: da una parte un popolo sovrano, dall’altra una popolazione gestita da un “board internazionale”. Non è questa la strada della pace giusta che il mondo, e in particolare i cristiani, devono invocare.