Figli, padri e una notte che resta. Quando il potere inciampa nella fragilità

La sentenza del tribunale di Tempio Pausania che ha condannato in primo grado Ciro Grillo e tre suoi amici per violenza sessuale di gruppo non è soltanto un atto giudiziario. È un fatto storico e simbolico, che si iscrive in una stagione italiana segnata da un intreccio pericoloso tra potere, denaro, notorietà e una profonda confusione morale.

I fatti risalgono alla notte tra il 16 e il 17 luglio 2019, nella villa di famiglia a Porto Cervo. Sei anni dopo, una decisione di primo grado — dunque ancora sottoposta al vaglio dei successivi livelli di giudizio — afferma un punto fermo: la ragazza che ha denunciato è ritenuta pienamente attendibile, e il contesto è stato definito dai giudici “predatorio”, segnato da abuso di alcol, inferiorità psicofisica e assenza di un consenso libero.

Ma se la giustizia segue il suo corso, la coscienza pubblica è chiamata a interrogarsi su qualcosa di più ampio.

La difesa disperata di un padre

Beppe Grillo, padre di Ciro e fondatore del Movimento 5 Stelle, ha scelto negli anni della vicenda una linea comunicativa che ha profondamente diviso l’opinione pubblica. Il celebre video in cui difende il figlio — parlando di consenso, di comportamenti successivi della ragazza, di sport praticato il giorno dopo — resta uno dei momenti più controversi della sua parabola pubblica.

È difficile non vedere, in quelle parole, la disperazione di un padre. Ma è altrettanto difficile ignorare che si sia trattato di una difesa moralmente inadeguata, perché pronunciata da una figura pubblica che per anni ha fatto della severità giudiziaria e della gogna morale un tratto identitario della propria azione politica.

Qui sta la frattura: non tra padri e figli, ma tra ruolo privato e responsabilità pubblica.

Ragazzi ricchi, irresponsabilità povera

Ciro Grillo e i suoi amici non sono mostri, ma nemmeno vittime del caso. Sono figli di un benessere che spesso anestetizza il senso del limite, cresciuti in un ambiente in cui tutto sembra possibile, accessibile, privo di conseguenze. È questa la vera “perversità” che emerge: non tanto una crudeltà programmata, quanto una leggerezza morale devastante, un’idea del corpo altrui come spazio disponibile, del divertimento come diritto assoluto.

Non è una questione di classe in senso sociologico, ma di educazione al potere. Quando il denaro e il nome proteggono troppo a lungo, la responsabilità arriva sempre tardi — e spesso nel modo peggiore.

Ragazze fragili, non colpevoli

C’è poi l’altra parte della storia, quella più difficile da raccontare senza scivolare nei cliché. Ragazze giovani, che frequentano locali notturni, che bevono, che flirtano, che possono apparire — agli occhi superficiali — “disinvolte”.

Ma la disinvoltura non è consenso, e la fragilità non è colpa. I giudici lo scrivono con chiarezza: uno stato di alterazione indotto, una condizione di inferiorità psicofisica, rende giuridicamente e moralmente nullo qualsiasi presunto assenso.

Denunciare, dopo giorni o settimane, non è segno di menzogna: è spesso l’unico modo possibile per chi deve prima ricomporre se stessa prima ancora di raccontare.

Il parallelo con il caso La Russa

In questo senso, il parallelo con un altro caso recente è inevitabile. Nel luglio 2023, Leonardo Apache La Russa, figlio del presidente del Senato Ignazio La Russa, viene accusato insieme all’amico Tommaso Gilardoni di violenza sessuale ai danni di una ragazza diciannovenne, dopo una notte trascorsa in una discoteca milanese e poi nell’abitazione dei La Russa.

Qui l’esito giudiziario è diverso: nel 2024 la Procura di Milano ha chiesto l’archiviazione per l’accusa di violenza sessuale, pur mantenendo aperto il filone sullo spaccio di stupefacenti. Ma il copione simbolico è sorprendentemente simile: una notte confusa, alcol e droghe, una ragazza che si sveglia senza memoria, un padre potente che difende pubblicamente il figlio.

Esiti diversi, stessa domanda: chi protegge chi, e a quale prezzo?

Una società chiamata a crescere

Nessuna sentenza — soprattutto di primo grado — può chiudere definitivamente una storia. Ma alcune sentenze aprono domande che non possiamo più eludere.

Non basta dire “aspettiamo i gradi successivi”. È giusto farlo sul piano giuridico. Ma sul piano culturale, il tempo dell’attesa è finito da anni.

Questi casi ci dicono che il vero processo è quello educativo, e che riguarda padri e figli, ragazzi e ragazze, potere e fragilità.

Se non impariamo a distinguere libertà da abuso, disinvoltura da consenso, difesa dall’arroganza, continueremo a raccontare le stesse notti — con nomi diversi — per molti anni ancora.

E a pagare il prezzo, quasi sempre, saranno i più fragili.