Nel dibattito sul suicidio assistito e sul fine vita, la questione decisiva non è come si muore, ma come si accompagna chi soffre. La legge italiana — tra cure palliative, libertà di coscienza e tutela costituzionale della vita — ha già tracciato un solco chiaro: il valore supremo è la vita della persona malata, non la sua morte. E il compito dello Stato è offrire alternative alla disperazione, non scorciatoie verso la fine.
Quando una società discute di vita e di morte, misura se stessa. Lo fa non nelle grandi dichiarazioni, ma nel modo in cui guarda — o distoglie lo sguardo — da chi soffre.
La discussione sul suicidio assistito e sul fine vita, che torna in Parlamento con la prospettiva di una nuova legge, interroga la coscienza civile prima ancora che quella religiosa.
Cosa significa, oggi, curare una persona che non può più guarire? Cosa resta del diritto alla vita, quando la libertà individuale sembra coincidere con la possibilità di morire a comando?
L’Italia non è un Paese privo di strumenti. Dal 2010 esiste una legge sulle cure palliative e sulla terapia del dolore, seguita nel 2017 dalla legge 219 che sancisce il diritto di rifiutare o interrompere le cure, e dal pronunciamento della Corte costituzionale che, con la sentenza 242 del 2019, ha limitato la punibilità dell’aiuto al suicidio a condizioni eccezionali.
Questo quadro normativo — arricchito da successive pronunce della Consulta — offre già strumenti di tutela per i malati gravi e terminali. E soprattutto, indica una direzione: quella di un accompagnamento alla vita fino alla fine, non di una scorciatoia che riduca la libertà alla sola possibilità di morire.
La vita come bene giuridico, non la sofferenza
Il nostro ordinamento riconosce come bene giuridico tutelato la vita, non la sofferenza.
Difende la libertà di rifiutare trattamenti sproporzionati o invasivi, ma non può trasformare lo Stato in un erogatore di morte su richiesta.
Ogni volta che un malato domanda di morire, la prima risposta non dovrebbe essere un sì amministrativo, ma una domanda più profonda: “C’è ancora una possibilità di vita buona, anche fragile, anche breve?”.
Lo spirito della Costituzione è chiaro: la Repubblica promuove la salute, sostiene chi non può lavorare, riabilita chi ha sbagliato, cura chi soffre.
Non elimina i problemi eliminando le persone.
È questa la differenza tra uno Stato solidale e uno Stato indifferente: il primo accompagna, il secondo abbandona.
La vera compassione non sopprime la vita
Nel linguaggio comune, “compassione” è spesso intesa come il desiderio di alleviare la sofferenza a ogni costo. Ma la pietà autentica — come ricordava già la Corte di Cassazione nel 2018 — non coincide con la soppressione della vita.
“Ti ho ucciso perché ti amavo” non può diventare un principio giuridico. Né può esserlo l’idea, insinuante e pericolosa, che la libertà consista nel poter scegliere la morte come soluzione a una vita ritenuta inutile.
L’etica della cura è un’altra cosa: significa stare accanto, lenire, ascoltare, non abbandonare.
Le cure palliative, quando realmente accessibili e ben sostenute, mostrano che la richiesta di morire si attenua dove la persona non si sente più sola, non si sente un peso.
Per questo, se il Parlamento vorrà legiferare, la priorità dovrà essere rafforzare la rete delle cure palliative e dei servizi domiciliari, oggi ancora troppo disomogenei tra le regioni.
Libertà e responsabilità, non automatismi
La libertà è sacra, ma non assoluta. Anche la libertà di coscienza — fondamento laico della nostra democrazia — trova il suo limite nella dignità inviolabile dell’altro.
La Consulta, nel definire le condizioni di non punibilità per l’aiuto al suicidio, ha voluto precisare che si tratta di uno spazio strettissimo, non di un diritto nuovo.
È il tempo breve del malato che sa di morire e non vuole prolungare la sofferenza, ma anche in quel tempo estremo la legge è chiamata a garantire la presenza di chi cura, non l’assenza di chi “aiuta a morire”.
Come ha scritto un malato terminale in un hospice toscano, poco prima di morire: «Mi avete rimesso al mondo».
Questa frase, apparentemente paradossale, riassume il cuore della questione: la cura autentica non prolunga solo la vita, ma restituisce senso e relazione anche al tempo che precede la morte.
E questo è ciò che uno Stato giusto, laico ma umano, deve garantire: che nessuno sia lasciato solo nella disperazione, e che ogni scelta sia frutto di una libertà accompagnata, non abbandonata.
Una legge che non dimentichi la vita
Il dibattito sul fine vita non è una contesa tra credenti e laici, ma tra una cultura della vita e una cultura della resa.
Una legge giusta non serve a far morire prima, ma a far vivere meglio fino alla fine.
Non si tratta di proibire o punire, ma di custodire la dignità di chi soffre e la responsabilità di chi cura.
Nel mondo contemporaneo, dove cresce la tentazione di considerare la morte come soluzione efficiente, l’Italia può ancora offrire una via diversa: quella di una misericordia intelligente, che non cede al cinismo e non lascia indietro nessuno.
Il compito della legge — e della politica — è allora questo: rimettere al mondo chi ha smarrito il senso della propria vita, prima di consentirgli di lasciarla.
Perché, come insegna il Vangelo del buon samaritano, l’unica vera prossimità è quella che si ferma, fascia le ferite e paga di persona. Non quella che passa oltre, anche quando lo fa “per compassione”.