Mini sommergibile carico di droga intercettato al largo della costa lusitana
Quando una narcopanga semisommergibile viene intercettata in pieno Atlantico con 1,7 tonnellate di cocaina, come accaduto in questi giorni al largo del Portogallo nell’operazione internazionale “El Dorado”, la notizia corre veloce. È un successo operativo notevole, frutto di una cooperazione intelligence-militare che coinvolge Portogallo, Regno Unito, Stati Uniti e l’Europa del MAOC-N.
Hanno attraversato l’Atlantico nascosti in un semi-sommerso, carichi di 1,7 tonnellate di cocaina, certi di arrivare indisturbati sulle coste europee. È finita diversamente: l’operazione internazionale “El Dorado” — frutto di una collaborazione esemplare fra autorità portoghesi, britanniche, statunitensi e forze europee — ha intercettato l’imbarcazione, arrestato l’equipaggio e sottratto al narcotraffico un enorme quantitativo di droga. Una buona notizia in un tempo in cui la cronaca sembra spesso cedere alla rassegnazione.
Eppure un pensiero s’impone: il fatto che nel 2025 il crimine organizzato utilizzi sottomarini artigianali per rifornire l’Europa dice qualcosa di più di un “colpo ben assestato” alle reti della cocaina. Racconta di un’economia parallela che investe, innova, rischia e coopera globalmente. E che lo fa perché sa di avere davanti un mercato europeo vasto, stabile, remunerativo. In altre parole, la droga non arriva solo perché qualcuno la trasporta: arriva perché qualcuno la aspetta.
Dietro quell’imbarcazione c’è una domanda che riguarda tutti noi. Non solo gli investigatori, non solo i magistrati, non solo i governi. Riguarda le nostre città, le nostre scuole, i nostri ragazzi. La cocaina oggi non è la sostanza “maledetta” di periferie oscure e vite irregolari; è la polvere dell’ufficio e della movida, dell’ansia da prestazione e della fuga dal vuoto. È il rifugio di chi non trova pace, di chi rincorre adrenalina perché non sa più gustare il tempo, di chi confonde libertà con smarrimento.
Il lavoro delle forze dell’ordine merita un plauso convinto. La cooperazione internazionale — in un’epoca in cui spesso si invoca il ripiegamento sovranista — dimostra, una volta di più, che alcune minacce si affrontano solo insieme. Tuttavia, non sarebbe onesto fermarsi qui. Perché ogni sottomarino intercettato è anche un campanello d’allarme: sulle fragilità sociali, sul disorientamento giovanile, sulla solitudine che cresce, sull’assenza di orizzonti condivisi.
Papa Francesco ha più volte ricordato che «la droga è una ferita nella nostra società» e che non basta reprimere se non si cura, se non si accompagna, se non si offre un’alternativa viva. La Dottrina sociale della Chiesa lo dice con chiarezza: una comunità è sana quando è capace di generare futuro, non di narcotizzare il presente.
Il sequestro del “sottomarino della coca” è un successo — e una fotografia. Mostra ciò che lo Stato può e deve fare: investigare, prevenire, colpire le reti criminali e il lavaggio di denaro. Ma ci ricorda anche ciò che la società civile, la scuola, le famiglie e le comunità cristiane sono chiamate a fare: educare alla libertà vera, prendersi cura delle fragilità, offrire percorsi di speranza, costruire relazioni che salvano.
Perché la battaglia contro la droga non si vince solo in alto mare. Si vince — o si perde — sulla terraferma, negli sguardi dei nostri ragazzi, nelle fatiche quotidiane, nella capacità di credere che nessun giovane è “perso”, nessun destino è scritto, nessuna notte è senza alba.
Quella barca fermata nell’Atlantico è una vittoria. Ma sarà ancora più grande se, guardandola, sapremo domandarci che cosa stiamo offrendo a chi, oggi, pensa di aver bisogno di polvere bianca per respirare. Una società che dà motivi per vivere è sempre più forte di qualunque cartello.
