In Turchia la democrazia è ridotta a una cornice sempre più fragile. La strategia di Recep Tayyip Erdogan, dopo oltre vent’anni al potere, appare ormai chiara: neutralizzare ogni spazio di opposizione, fino a svuotare dall’interno anche il Partito repubblicano del popolo (CHP), fondato da Atatürk, simbolo della stessa Repubblica turca.
Il paradosso è evidente: proprio mentre il CHP vive un momento di rinnovato consenso, soprattutto nelle grandi città e tra i giovani, la pressione giudiziaria e amministrativa si intensifica. Tribunali e decreti sono diventati strumenti politici: commissariamenti, destituzioni di dirigenti locali, arresti di amministratori eletti. La linea del presidente è quella di un’autarchia politica che non tollera né mediazioni né contrappesi.
Non si tratta più di isolare i curdi, i giornalisti o le voci indipendenti della società civile – già colpite in questi anni – ma di colpire il cuore stesso della rappresentanza politica nazionale. Erdogan sembra voler replicare il modello russo: lasciare in vita un partito d’opposizione di nome, ma svuotato di potere e di libertà, ridotto a pura scenografia.
Dietro questa scelta c’è la paura. Il sindaco di Istanbul, Ekrem Imamoglu, e la nuova generazione di dirigenti repubblicani hanno mostrato che esiste un’alternativa credibile al dominio dell’AKP. Per questo l’autocrate non esita a forzare le regole: divide, intimorisce, coopta. Ma a lungo andare la repressione rischia di indebolire non solo l’opposizione, bensì le stesse istituzioni turche, già logorate da inflazione e crisi economica.
La posta in gioco non è solo la sorte di un partito, ma il futuro della democrazia turca. Un Paese nato dalla visione di Atatürk come ponte tra Oriente e Occidente rischia oggi di scivolare in una gestione personalistica e autarchica del potere, dove non c’è più spazio per il pluralismo.
Per l’Europa, e per chi guarda alla Turchia come partner inevitabile nel Mediterraneo, non si può fingere che sia un fatto interno. Una società soffocata, privata della sua opposizione, non è stabile: è una pentola a pressione. Il “modello Erdogan”, che oggi sembra garantire forza, nasconde in realtà la fragilità di un potere che teme la voce libera dei cittadini.
La vera sfida, per i turchi come per noi, è non cedere all’abitudine dell’autoritarismo. Perché, come ha ricordato un dirigente CHP, «se il nostro partito muore, muore con lui anche la democrazia».