Dopo soli 129 giorni al vertice del “Dipartimento dell’efficienza governativa”, il magnate delle tecnologie abbandona l’incarico tra fallimenti, tensioni e liti interne. Un addio che interroga anche il modello di società che idolatra il successo senza limiti.

Doveva essere l’uomo del cambiamento, l’innovatore prestato alla cosa pubblica, il “tagliatore di sprechi” col culto della performance. Invece, Elon Musk ha lasciato l’incarico governativo più discusso d’America nel silenzio e con un post su X. Il suo passaggio a Washington, come “dipendente speciale” dell’amministrazione Trump, è durato 129 giorni. E ha lasciato dietro di sé licenziamenti di massa, promesse irrealizzate, polemiche etiche e un grave smarrimento culturale: cosa succede a una democrazia quando il potere pubblico viene affidato ai miliardari?

L’impero del Doge: il governo come azienda

Il “Doge” – acronimo di Department of Government Efficiency – era stato cucito su misura per lui da un Trump in piena campagna per la rielezione. Musk aveva promesso 2.000 miliardi di dollari di risparmi. Ne ha tagliati, secondo le stime più ottimistiche, appena 175 miliardi, al prezzo sociale di oltre 260.000 licenziamenti nella pubblica amministrazione. Molti dipendenti hanno ricevuto avvisi umilianti, e-mail secche con trenta minuti per svuotare le scrivanie. L’ex CEO di Tesla si è vantato pubblicamente: «Ho rovinato la vita a migliaia di persone».

Ma al di là della crudeltà operativa, Musk ha mostrato disprezzo per la dignità del lavoro pubblico e per ogni forma di mediazione sociale. Ha trasformato l’efficienza in spettacolo, la riduzione dei costi in narrazione social, e la compassione in un ostacolo.

Una cultura che taglia tutto: spese, diritti, relazioni

Musk ha lasciato senza salutare Trump, dopo aver criticato la legge fiscale proposta dallo stesso presidente, una manovra che prevede tagli ai sussidi per i bambini poveri e sgravi fiscali ai super-ricchi, generando un deficit stimato in 5.000 miliardi in dieci anni. Eppure era stato lui stesso a donare 300 milioni alla campagna di Trump, che lo aveva arruolato come simbolo del “capitalismo liberatore”.

Ma non si può costruire una società solo sul risparmio. Non si governa con la motosega, né con le dirette su X. E nemmeno con gli slogan nichilisti pronunciati con il figlio sulle ginocchia e i gesti provocatori da palcoscenico. La “politica del gesto” non può sostituire il pensiero, la competenza, la cura.

Una lezione per tutti: la libertà non è il contrario della responsabilità

Nel Vangelo si legge che chi vuole essere il più grande, deve farsi servo di tutti. Elon Musk ha mostrato, invece, l’arroganza di chi si sente al di sopra delle regole, persino della propria stessa promessa di rivoluzione. Ha trattato lo Stato come una startup in perdita, i cittadini come “utenti inefficienti”, i poveri come zavorra, i collaboratori come ostacoli.

Ma una nazione non è una società per azioni, e un popolo non è un portafoglio investimenti. Dietro ogni “esubero” c’erano famiglie, volti, vite. Dietro ogni annuncio di taglio c’era una ferita invisibile.

Uscita di scena o anticamera di un ritorno?

Resta l’ombra di un possibile ritorno. Musk è imprevedibile. Come Trump, sa trasformare la sconfitta in marketing. Ma questa vicenda ci lascia un segnale chiaro: la democrazia non può essere piegata all’efficienza come unico valore. Tagliare il superfluo è necessario, ma preservare l’essenziale umano lo è di più.

Non serve più velocità. Serve più visione, giustizia, rispetto del bene comune. Serve ricordare che un vero leader non si misura dal numero di follower, ma da quanti riesce a sollevare nei momenti più fragili.