Il massacro di 460 persone in un ospedale materno di El Fasher è solo l’ultimo atto di una guerra dimenticata. In Sudan si sta consumando la più grave crisi umanitaria del nostro tempo, tra pulizie etniche, stupri sistematici e indifferenza internazionale.

L’ospedale come campo di battaglia

Nel Nord del Darfur, a El Fasher, un ospedale materno è diventato una fossa comune.

Più di 460 pazienti, medici, donne incinte, bambini sono stati uccisi dalle milizie delle Forze di Supporto Rapido (RSF). Le immagini satellitari mostrano il terreno tinto di rosso. I testimoni parlano di esecuzioni sommarie, corpi appesi agli alberi, violenze sessuali su donne e ragazze.

Non è stato un errore militare: è una scelta politica.

L’ospedale è stato preso di mira perché rappresentava ciò che la guerra odia di più — la vita, la cura, la possibilità di rinascere.

L’attacco non è un episodio isolato, ma parte di una strategia di terrore che mira a svuotare intere aree dalle popolazioni non arabe: i Fur, gli Zaghawa, i Berti. È una pulizia etnica sistematica, come ha denunciato il Laboratorio di ricerca umanitaria di Yale.

La guerra che divora il Sudan

Il Sudan è oggi la peggiore crisi umanitaria del mondo.

Oltre 12 milioni di persone sono state costrette a fuggire, 30 milioni hanno bisogno di aiuti umanitari.

Il conflitto tra le RSF di Mohamed Hamdan Dagalo (Hemeti) e l’esercito del generale al-Burhan non è solo una lotta di potere. È la frattura definitiva di un Paese già segnato da decenni di dittatura, sfruttamento e divisioni etniche alimentate da interessi esterni.

Dopo 500 giorni di assedio, la caduta di El Fasher consegna il Darfur intero ai paramilitari, con il sostegno — negato ma evidente — di mercenari e fondi provenienti dagli Emirati Arabi Uniti.

È la replica del genocidio dei primi anni 2000, quando i Janjawid, progenitori delle RSF, massacrarono centinaia di migliaia di civili. Solo che oggi, a differenza di allora, il mondo guarda altrove.

Il silenzio della comunità internazionale

L’ONU parla di “orrore”, ma resta paralizzata. L’Unione Africana non trova un’unica voce. Gli Stati Uniti condannano, ma non intervengono. L’Europa si limita a finanziare i campi profughi nei Paesi vicini, nella speranza che i disperati non arrivino sulle sue coste.

Il risultato è un vuoto di potere dove prosperano i signori della guerra, le milizie etniche e gli interessi stranieri.

Nel frattempo, i civili vengono affamati, le città rase al suolo, gli ospedali bombardati.

La guerra in Sudan è diventata una guerra senza testimoni, dove ogni silenzio vale più di mille complicità.

L’umanità sequestrata

Colpire un ospedale materno è colpire la vita nel suo momento più fragile.

È una dichiarazione di dominio: “possiamo decidere chi nasce e chi muore”.

È questo il linguaggio del terrore contemporaneo, in cui la violenza non serve solo a vincere militarmente, ma a distruggere moralmente la società che resiste.

I corpi ammucchiati di El Fasher, le madri in fuga con i neonati, i medici uccisi perché curavano, raccontano più di qualsiasi rapporto ONU: raccontano la dissoluzione dell’idea stessa di diritto umanitario.

Eppure il Sudan non è un’anomalia. È il simbolo di una globalizzazione del disordine, dove le guerre periferiche diventano strutturali e la vita civile diventa un bersaglio.

Il prezzo dell’indifferenza

Nel 2004, la parola Darfur suscitava indignazione e campagne internazionali. Oggi non fa più notizia.

L’attenzione del mondo è occupata da Gaza, dall’Ucraina, da Taiwan.

Ma ogni guerra dimenticata prepara il terreno per la prossima.

Il collasso del Sudan destabilizza il Corno d’Africa, apre corridoi ai trafficanti, minaccia l’Egitto, e spinge nuovi flussi di profughi verso l’Europa.

Ignorare El Fasher non è solo disumano: è miope. Perché il vuoto lasciato dall’indifferenza sarà presto riempito da altre forze, altre guerre, altre fiamme.

Il grido che non arriva

L’attacco all’ospedale materno di El Fasher non è soltanto una tragedia locale: è un punto di non ritorno morale.

Quando curare diventa un atto di guerra, l’umanità ha già perso.

E quando i cadaveri si contano a centinaia, ma non si contano più le parole di condanna, significa che la barbarie ha vinto anche nel linguaggio.

Il Sudan sta morendo in silenzio.

E il silenzio, ancora una volta, è il complice più fedele dei carnefici.