Il ritardo dell’Italia e l’urgenza di ricominciare dalla famiglia
In un’Italia dove la violenza domestica, i femminicidi, gli abusi e le relazioni tossiche riempiono tragicamente le cronache, c’è una domanda che pesa come un macigno: chi educa oggi i nostri figli all’affettività? E, ancor prima: perché non lo facciamo?
In quarant’anni, 37 proposte di legge per introdurre nelle scuole l’educazione affettiva e relazionale sono rimaste chiuse nei cassetti. Nessuna è mai arrivata in porto. Risultato? L’Italia è oggi l’unico grande Paese occidentale a non avere una cornice educativa stabile per insegnare ai giovani il valore dei sentimenti, del rispetto reciproco, della relazione come dono e responsabilità.
Ma è proprio questo vuoto educativo ad alimentare la cultura dell’abuso, della solitudine, del possesso e della violenza. Non basta aggiungere qualche lezione extracurricolare. Occorre ritrovare il coraggio di una parola chiara sull’amore, sul corpo, sulla reciprocità. Una parola che non sia né moralistica né ideologica. Ma vera.
L’equivoco educativo e lo smarrimento culturale
Troppo spesso si confonde l’educazione all’affettività con campagne incentrate sull’identità di genere o sull’orientamento sessuale, oppure con la sola educazione sessuale biologica e contraccettiva. Ma educare all’affettività è ben altro: è formare il cuore, la volontà, la capacità di entrare in relazione in modo maturo, libero, rispettoso.
Significa anche riconoscere l’importanza centrale della famiglia come primo e insostituibile luogo educativo.
Ed è proprio qui che emergono le grandi fragilità del nostro tempo: separazioni conflittuali, modelli genitoriali sbagliati, assenze emotive, relazioni familiari segnate dal litigio, dalla precarietà o dalla violenza. Come può un figlio imparare ad amare se il suo primo modello affettivo è confuso o dannoso?
La scuola, che potrebbe integrare queste mancanze, spesso tace per paura di scontentare. Quando tenta di intervenire, viene accusata di voler promuovere un’agenda ideologica. Così, mentre scuola e famiglia si ritirano, i giovani imparano l’amore dai social, dai video, dalle serie televisive – o peggio, dalla pornografia – dove l’altro è oggetto e l’emozione è merce.
Il caso “genitore” e il valore dei simboli
In questo contesto si inserisce anche la recente decisione della Cassazione, che ha stabilito il ritorno alla dicitura “genitore” nella carta d’identità dei minori, eliminando le parole “padre” e “madre”. L’intento era quello di rappresentare situazioni familiari atipiche, ma la questione tocca corde molto più profonde.
Fino al 2015, sulle carte d’identità figurava la dicitura: “genitore e/o di chi ne fa le veci”, una formulazione che garantiva tutela ai minori in ogni condizione, senza oscurare però le figure fondamentali della madre e del padre.
Il decreto del 2019 (sotto il Ministero Salvini) aveva giustamente ripristinato le dizioni “padre” e “madre”, mentre oggi si torna indietro. E la domanda è inevitabile: abbiamo ancora il coraggio di proporre con chiarezza e orgoglio un modello stabile di maternità e paternità?
In una società che ha smarrito i riferimenti, padre e madre non possono essere trattati come variabili burocratiche. La complementarità tra uomo e donna resta, da un punto di vista umano, educativo e antropologico, il fondamento più solido per una crescita armoniosa del bambino.
Certo, ogni minore ha diritto a essere rispettato e tutelato nella sua situazione concreta. Ma in nome dell’inclusione non si può cancellare il reale, né rinunciare a proporre un modello virtuoso. La vera accoglienza non confonde i ruoli, ma li valorizza nella loro bellezza e differenza.
Senza educazione, nessuna società tiene
Se non educhiamo all’amore, al rispetto, alla reciprocità, non possiamo stupirci della spirale crescente di violenza, abusi e solitudini esistenziali.
E non basteranno leggi più dure o condanne più pesanti. Serve una cultura preventiva, una formazione profonda, un’alleanza rinnovata tra famiglia e scuola, capace di dare ai giovani parole buone, esempi veri, relazioni sane.
L’educazione all’affettività, se ben pensata e ben proposta, è tutt’altro che un rischio. Anzi: è la via maestra per custodire la persona, contrastare la pornografia emotiva e affettiva, frenare la deriva dell’egoismo relazionale. È tempo che genitori, educatori, pastori e istituzioni riprendano insieme questa responsabilità. Perché senza educazione affettiva, non c’è civiltà possibile.
La responsabilità è nostra
La prossima volta che un parlamentare o un opinionista dirà che l’educazione affettiva è un attentato alla famiglia, ricordiamoci che il vero attentato alla famiglia è abbandonarla al caos e all’improvvisazione. Che chi non forma il cuore dei giovani, prepara il disastro sociale.
Educare all’affettività non è ideologia, è prevenzione. Non è propaganda, è realismo educativo. Non è relativismo, è rispetto della verità dell’altro e del bene della persona intera.
Solo una società che sa custodire il cuore delle nuove generazioni sarà capace di costruire un futuro in cui l’amore non sia più ferita, ma forza che salva. E tutto comincia da lì: dalla famiglia, dalle parole vere, dalla formazione al bene.