Tra ideologia e libertà: la vera posta in gioco dell’educazione sessuale nelle scuole

C’è una differenza enorme tra parlare di sesso e educare alla vita affettiva. Eppure, nel frastuono politico di questi giorni, sembra che nessuno se ne accorga. Alla Camera, la discussione sul disegno di legge sull’educazione sessuale e affettiva nelle scuole si è trasformata nell’ennesimo scontro ideologico. Da una parte chi teme un’invasione “gender” nelle aule, dall’altra chi accusa il governo di oscurantismo.

In mezzo, come sempre, restano i ragazzi: confusi, curiosi, soli di fronte a un mondo digitale che parla loro di sesso ogni giorno — e quasi mai d’amore.

È il paradosso della nostra epoca. I giovani vivono immersi in una sovraesposizione erotica senza precedenti, ma in un vuoto affettivo altrettanto profondo. Imparano a “vedere” il sesso, ma non a comprenderlo. Scoprono tutto — e troppo presto — senza che nessuno li aiuti a dare un nome ai sentimenti, alla responsabilità, alla bellezza di una relazione che sia anche dono e rispetto.

In questo senso, l’educazione sessuale non è affatto un pericolo. È semmai un’urgenza. Lo diventa però se viene ridotta a un manuale di tecniche o a una lezione di biologia senz’anima.

L’educazione alla vita e alla relazione, invece, è un compito nobile: un aiuto a capire che il corpo non è un oggetto ma linguaggio, che la sessualità non è consumo ma comunione, che amare significa rispettare l’altro nella sua libertà e dignità.

Non c’entra nulla, dunque, la cosiddetta teoria gender, che pretende di cancellare le differenze e dissolvere l’identità. Confondere le due cose è un errore culturale — e una responsabilità politica. L’educazione all’affettività, come la intende la tradizione cristiana e la buona pedagogia laica, parte invece dal riconoscere la verità della persona, maschio e femmina, chiamata a relazioni mature, libere, responsabili.

Come ricordava san Giovanni Paolo II nella Lettera alle famiglie, «la libertà non è il potere di fare tutto ciò che piace, ma la forza di scegliere il bene».

Chi oggi si oppone a ogni forma di educazione affettiva nelle scuole, temendo derive ideologiche, sbaglia bersaglio: il problema non è se parlarne, ma come parlarne. Perché se la scuola tace, a parlare sarà Internet — e lo farà senza pudore, senza verità e senza misericordia.

Non educare non è una forma di neutralità: è una resa. È lasciare che la pornografia diventi maestra di vita, che i social diventino catechismo del corpo.

Il punto, allora, non è la “paura del sesso”, come qualcuno ha urlato in Aula. È la consapevolezza che la sessualità non è un gioco da tavolo, ma una forza misteriosa che può generare vita o ferite. Parlare di essa non è proibito, ma va fatto con misura, pudore e competenza. Servono docenti preparati, percorsi condivisi con le famiglie, linguaggi adeguati all’età.

Il consenso informato dei genitori, in questo senso, non è censura ma corresponsabilità educativa: una tutela che riconosce che i figli non appartengono allo Stato né ai partiti, ma sono affidati insieme alla scuola e alla famiglia.

In fondo, il dibattito di questi giorni rivela una povertà più grande: l’incapacità di parlare ai giovani d’amore in modo vero.

Dietro le risse parlamentari si intravede un Paese che teme di affrontare la questione più radicale: che tipo di adulti vogliamo essere per i nostri figli? Quelli che tacciono per imbarazzo, o quelli che li aiutano a crescere nella verità e nella tenerezza?

Educare alla sessualità non significa imporre modelli, ma insegnare la grammatica del dono. Non c’è nulla di scandaloso in questo. È il cuore della vita, la prima forma di civiltà.

E finché lo trasformeremo in un’arma politica, continueremo a lasciare i più giovani in pasto a un mondo che li seduce ma non li ama.