Una pagina buia per la Marina Militare italiana
Ogni anno, l’11 ottobre richiama il ricordo della tragedia del 2013 – il cosiddetto “naufragio dei bambini” – in cui 268 persone persero la vita, tra le quali circa 60 minori. I migranti provenivano dalla Siria e viaggiavano su un barcone che, dopo essere stato colpito da milizie libiche, cominciò a imbarcare acqua mentre si trovava in zona SAR maltese, a circa 60 miglia da Lampedusa. Ma a far maggior rumore, dopo il dolore, fu il silenzio dei poteri: il rimpallo istituzionale, i timori burocratici, la scelta politica di lasciar morire esseri umani sospesi tra le onde.
“La stanza dei bottoni” e il fallimento dell’etica
Sotto il profilo umano e morale, ciò che più ferisce non è soltanto il ritardo, ma l’indifferenza sistemica. Le ricostruzioni giudiziarie, le indagini giornalistiche, i pronunciamenti internazionali convergono su un punto: chi decide a Roma, nei ministeri, nelle sale operative della difesa e della marina, ha accettato tacitamente di deferire la vita alle procedure e ai protocolli, quando non alla volontà di non vedere.
Il pattugliatore Libra (P402), al comando della tenente di vascello Catia Pellegrino, era in zona e avrebbe potuto raggiungere i disperati prima del capovolgimento del barcone. Invece, le autorità centrali imposero che “ombra-seguisse” il target, senza intervenire direttamente.
Alle 16:22 il RCC maltese chiese per fax al comando italiano che la Libra intervenisse, vista la sua vicinanza. Ma Roma autorizzò l’intervento solo alle 17:04, quando ormai l’imbarcazione si era già capovolta.
Perfino il Comitato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani ha condannato l’Italia per le responsabilità derivanti dalle sue omissioni e reticenze, ritenendo che — pur trovandosi l’evento in zona SAR maltese — il nostro Paese non potesse sottrarsi al dovere di soccorso.
Insomma: i “bottoni” che compongono il vertice delle catene decisionali statali – ministri, dirigenti, generali – hanno scelto (o permesso) che la burocrazia prevalesse sulla vita, che le responsabilità venissero rimpallate e che i morti restassero sepolti tra scartoffie e prescrizioni.
Giudici certificatori ma senza sanzione
Oltre a Catia Pellegrino, prima donna in Italia al comando di un’unità navale, vennero messi sotto inchiesta l’ammiraglio Filippo Maria Foffi, insieme ai tenenti di vascello Clarissa Torturro e Antonio Miniero, con l’accusa di omicidio con dolo eventuale. Ai processi non si è giunti a pene effettive: nel dicembre 2022 i reati contestati (rifiuto di atti d’ufficio, omicidio colposo plurimo) sono stati dichiarati estinti per prescrizione. Il tribunale di Roma, con la sentenza n. 14998 del 15 dicembre 2022, ha tuttavia documentato responsabilità oggettive della Guardia Costiera e della Marina italiana nella lentezza e nei ritardi: stili amministrativi, divisioni di competenze e formalismi che hanno prevalso sul diritto alla vita. La magistratura ha giudicato, certificato, denunciato — ma i poteri politici sono rimasti impuniti. È un’etica che predilige la conservazione di sé piuttosto che l’assunzione di responsabilità; un’etica che abdica davanti al mare.
Una lezione non ancora imparata
A dodici anni di distanza, la lezione non è stata ancora imparata. Lo dimostra il naufragio di Cutro del 26 febbraio 2023, con decine di vittime a poche decine di metri dalla riva, in uno scenario di comunicazioni confuse, rinvii e responsabilità eluse. Si continua a ragionare come se il problema fosse altrove: la minaccia strategica — per una classe politica più servile che lungimirante — non sarebbe la corsa al riarmo giustificata da un nemico inventato, ma i dannati della terra che fuggono da fame, guerre e miseria. Quelli che osano attraversare il mare cercando un futuro vengono trattati come un pericolo, non come un appello alla nostra coscienza.
Una memoria che deve farsi impegno
L’11 ottobre 2025 non può essere solo una data del calendario. Deve essere un richiamo permanente: alla trasparenza, all’obbligo morale di proteggere chi fugge dal buio, al rigore che deve sostituire il compromesso quando è in gioco la vita. Occorre che chi sta nella stanza dei bottoni risponda — non alle carte protocollari, ma agli occhi delle vittime. Che si restituisca dignità ai 268 che non ce l’hanno fatta. Che si affermi una politica migratoria che non proceda per omissione, silenzio o delega. E soprattutto, che l’Italia — con i suoi apparati militari, i suoi ministeri, le sue sale operative — non resti ancora una volta connivente con la morte.
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Nella foto: il naufragio dell’11 ottobre 2013, in cui persero la vita 268 persone, 60 delle quali bambini. Per questo procedimento il procuratore Giuseppe Pignatone aveva chiesto l’archiviazione. Ma i magistrati non hanno ascoltato le testimonianze dei sopravvissuti né chiesto all’autorità maltese i rapporti sul naufragio. Lo ricorda con una nota l’associazione Progetto Diritti onlus che con gli avvocati Arturo Salerni e Mario Angelelli, insieme all’avvocata Alessandra Ballerini assistono i familiari delle persone decedute nel naufragio.
Posizione dei naufraghi e di nave Libra il giorno della tragedia.

