Nel quarantennale della tragedia dello stadio Heysel, la città di Napoli festeggia l’apoteosi del suo quarto scudetto senza incidenti significativi. Un popolo che ricorda, gioisce e sorprende, mentre la Chiesa invita a non dimenticare i poveri.

Il 29 maggio 1985, allo stadio Heysel di Bruxelles, 39 persone – per lo più italiane – morirono travolte da una furia cieca, nel preludio alla finale di Coppa dei Campioni tra Juventus e Liverpool. Una tragedia che segnò per sempre il calcio europeo e costrinse l’Europa intera a interrogarsi su cosa stava diventando lo sport più amato del mondo.

Oggi, a quarant’anni esatti di distanza, il contrasto è quasi simbolico: Napoli festeggia il suo quarto scudetto con gioia travolgente ma composta, senza incidenti significativi. Una festa popolare fatta di cori, bandiere, famiglie in piazza, bambini sulle spalle dei papà. Anche questo è un segno di maturità civile, di un popolo che ama, tifa, ricorda.

C’erano preoccupazioni, certo. I precedenti in altri stadi e in altre città d’Italia lo avrebbero giustificato. E invece, Napoli ha stupito tutti, offrendo al Paese e al mondo un’immagine diversa: non solo di passione, ma di coscienza.

Nel giorno dell’Heysel, questa è forse la lezione più vera. Il calcio può unire o dividere, ferire o guarire. Tutto dipende da ciò che scegliamo di essere: tifosi che si esaltano a scapito degli altri, o cittadini che nella festa trovano la forza di costruire comunità.

Anzi, a dirla tutta, ci sono stati episodi che meritano di essere raccontati per la loro straordinaria napoletanità. Durante i caroselli, alcune vecchie auto – abbandonate, non assicurate o comunque inutilizzate – sono state rubate, trasformate in improbabili cabriolet, pitturate d’azzurro e usate come mezzi da parata. Il gesto, goliardico e illegale, si è concluso in maniera imprevista: i proprietari hanno ricevuto auto nuove in regalo, grazie alla generosità del rapper Geolier. Ma pare che a organizzare il rimborso siano stati gli stessi tifosi, che, nell’anonimato, hanno fatto arrivare i soldi a nome del cantante. Una leggenda urbana? Forse. Ma è proprio questo il paradosso di Napoli: una città capace di trasgredire con allegria e poi restituire con dignità.

Nel ricevere in udienza la SSC Napoli il 27 maggio, Papa Leone XIV ha voluto sottolineare il valore educativo del calcio, ricordando che «il campionato lo vince la squadra», intesa come comunità. E ha lanciato un monito: «Quando lo sport diventa business, perde i valori che lo rendono formativo». Un richiamo sobrio, rivolto ai giovani, ai genitori, ai dirigenti, perché il calcio resti terreno di crescita e non diventi un’arena pericolosa.

Nel cuore della città, l’arcivescovo Domenico Battaglia ha aggiunto un tassello fondamentale: «Anche nella gioia, non dimentichiamo i poveri». Un appello che non smorza la festa, ma la rende più vera. Perché la gioia autentica è sempre solidale, mai indifferente.

Il ricordo dell’Heysel resta un monito. Perché il calcio, oggi come allora, può essere strumento di riscatto o detonatore di odio, luogo di incontro o campo di battaglia. L’Italia ha conosciuto entrambe le facce. Ma Napoli, in questi giorni, ha scelto la parte giusta della storia: quella della festa, della memoria, della responsabilità.

Oggi, mentre Napoli si gode il frutto della passione sportiva, l’Italia intera ha l’occasione di dimostrare che un altro calcio è possibile: senza odio, senza curve violente, senza razzismi, ma con rispetto, emozione e valori.

Anche questa è Napoli. La Napoli che sa piangere e ridere, trasgredire e riparare, accendersi di passione e poi tornare a casa senza fare male a nessuno. E mentre il mondo continua a mostrarsi lacerato da guerre, tensioni e violenze, il calcio, quando è vissuto così, sa ancora essere un miracolo di umanità.

Ecco perché la memoria dell’Heysel, la festa di Napoli e le parole della Chiesa non sono tre storie distinte. Sono un’unica pagina di coscienza, che ci chiede di scegliere tra un calcio che costruisce o un calcio che distrugge. Oggi, nel ricordo e nella festa, facciamolo diventare un calcio che educa.