Il presidente americano è pronto a discutere con il leader siriano Sharaa, già detenuto a Guantánamo e oggi uomo forte di Damasco: tra business, diplomazia e ambiguità, gli USA rischiano di offrire legittimità internazionale a un passato ancora irrisolto.

L’eventualità che il presidente Donald Trump incontri il nuovo leader siriano, Sharaa, durante la sua visita in Arabia Saudita segna un punto di svolta potenzialmente esplosivo nella dottrina americana di sicurezza nazionale. La possibilità che un ex detenuto di Abu Ghraib, ex membro di al-Qaeda in Iraq, oggi islamista al potere a Damasco, sia ricevuto al tavolo delle trattative con il Presidente degli Stati Uniti è qualcosa che, fino a pochi anni fa, sarebbe stato impensabile.

Ma la logica che guida Trump non è quella della geopolitica tradizionale, bensì quella della “diplomazia transazionale”. In questa visione, la politica estera non è fondata su alleanze ideologiche, difesa dei valori o strutture multilaterali, bensì su accordi bilaterali concreti, spesso commerciali, e sull’abilità a “concludere l’affare”.

Un nuovo inizio o un azzardo pericoloso?

Trump ha dichiarato che vuole offrire alla Siria “un nuovo inizio”, ma a quale prezzo e con quale strategia? Le sanzioni contro il regime di Assad non erano solo punitive: erano un segnale morale, un presidio contro l’impunità, e il frutto di anni di diplomazia multilaterale. Revocarle senza una chiara roadmap di democratizzazione e disarmo significa svendere l’unico capitale simbolico che ancora resta all’Occidente in Medio Oriente: la coerenza normativa.

Sharaa propone concessioni economiche in stile “deal”: accesso a imprese americane, un possibile accordo sui minerali, persino un progetto per una Trump Tower a Damasco. In cambio, la Siria potrebbe aprire il dossier degli Accordi di Abramo, offrendo un’adesione simbolica che romperebbe, almeno sulla carta, l’asse con Teheran. Ma tutto questo assume l’aspetto di una vendita accelerata della sovranità diplomatica americana in cambio di vantaggi simbolici ed economici di breve termine.

Il rischio di una legittimazione affrettata

Accettare di incontrare Sharaa — leader controverso, di passato jihadista, salito al potere solo pochi mesi fa — significherebbe conferirgli una legittimazione internazionale ancora instabile e non meritata. L’incontro rischia di trasformare una figura pericolosa e fluida in un interlocutore riconosciuto, proprio mentre l’Unione Europea e il Consiglio di Sicurezza restano cauti.

La Casa Bianca si trova spaccata: da una parte consiglieri come Tulsi Gabbard, che già nel 2016 aveva suggerito di dialogare con Assad, oggi frenano sull’incontro; dall’altra, figure come Steve Witkoff, l’inviato del presidente per il Medio Oriente, spingono per un disgelo in chiave real estate, sostenendo che “la gente lì risponde al linguaggio degli affari, non della politica”. È la logica dell’emiro-marketing geopolitico, in cui il soft power viene sostituito dal property power.

Iran, Israele, e il prezzo dell’illusione

Il vero nodo geopolitico è l’Iran. Alcuni consiglieri vedono in Sharaa l’occasione per staccare la Siria dall’influenza iraniana, specialmente nel quadrante sud-ovest, vicino alle alture del Golan. Un possibile accordo che consenta a Israele di mantenere una zona cuscinetto — come ventilato — rappresenterebbe una svolta epocale, ma anche una bomba a orologeria.

Concessioni territoriali, riforme costituzionali, promesse di inclusività: Sharaa potrebbe promettere tutto e il contrario di tutto, ma senza un sistema di verifica multilaterale, ogni intesa è destinata a diventare un altro capitolo della lunga serie di fallimenti dell’Occidente in Siria.

Geopolitica o geopropaganda?

Il rischio è che questo incontro non sia dettato da una strategia, ma da una logica di marketing politico-personale: Trump che cerca un successo simbolico da mostrare ai suoi elettori, una Trump Tower da sventolare come bandiera della pace.

Il risultato? Una politica estera che somiglia sempre più a un portfolio di investimenti privati, con la stabilità del Medio Oriente usata come garanzia collaterale.

Ma la pace, quella vera, non si costruisce con le torri d’oro. Si costruisce con istituzioni, memoria, giustizia e rispetto dei popoli.

E su questo, il futuro dirà se Trump ha fatto un accordo… o un azzardo.