Come può il popolo che ha subito l’Olocausto infliggere oggi, a Gaza e in Cisgiordania, una devastazione simile a quella che la storia aveva giurato di non ripetere? È una domanda che brucia nella coscienza. Una domanda che turba il sonno. Una domanda che, di fronte alle immagini dei bambini di Gaza affamati, ai racconti di medici che ogni giorno raccolgono i corpi martoriati da colpi di precisione sparati al busto, all’inguine, alle gambe — con un cinismo che sembra studiato — non può restare senza risposta.

È difficile da accettare. Ed è impossibile da comprendere. Sembra una forma di vendetta cieca, che ha divorato la memoria e bruciato la compassione.

La tragedia del popolo ebraico, con i sei milioni di morti nei campi nazisti, ha scolpito nella coscienza dell’umanità un monito eterno: “Mai più”. Eppure, oggi, chi ha ereditato quella memoria rischia di tradirla con le proprie mani. L’operazione militare su Gaza non è più solo una reazione a un attacco terroristico: è diventata un’offensiva disumana, che colpisce indiscriminatamente civili inermi, svuota città intere, condanna alla fame milioni di persone.

Non si tratta di negare il diritto di Israele alla sicurezza, né di sottovalutare la minaccia reale di Hamas. Ma il diritto alla difesa non può mai diventare licenza per l’annientamento.

Eppure chi osa alzare la voce per dire questo viene accusato di antisemitismo. È un’accusa infame e indegna. È proprio chi ha pianto e onorato la memoria delle vittime della Shoah, chi ha condannato senza ambiguità il fanatismo e la violenza di Hamas, che oggi grida lo scandalo morale e invoca giustizia per Gaza. Perché il dolore non si pesa a bandiere alterne. Il sangue non ha religione. Le vittime non hanno doppio standard.

Israele ha smarrito la bussola morale, intrappolato in un’ideologia bellica che confonde giustizia con vendetta. L’occupazione di Gaza City, decisa in questi giorni, rappresenta non solo un errore strategico, ma una catastrofe etica. Spingere un milione di persone verso il nulla, tra macerie e tende, con il pretesto di liberarle da Hamas, equivale a distruggerle. Anche le famiglie degli ostaggi israeliani lo sanno. Anche i generali lo sanno. Solo un uomo continua a non volerlo capire: Benjamin Netanyahu, che brandisce la memoria della Shoah come uno scudo politico per perpetrare un disegno distruttivo.

Nel frattempo, l’Europa resta colpevolmente muta. Incapace di prendere una posizione forte, di sospendere relazioni economiche, di minacciare sanzioni. Troppo timorosa dell’accusa di antisemitismo, troppo pavida per chiamare i fatti col loro nome. Eppure non si può più tacere. Il Vangelo dice che se questi taceranno, grideranno le pietre (cf. Lc 19,40). E a Gaza le pietre gridano. Gridano i corpi sotto le macerie, i bambini senza pane, i vecchi lasciati a morire.

Questa non è solo una guerra. È un collasso morale. È un conflitto tra memoria e oblio, tra umanità e crudeltà, tra compassione e odio. E chi ha davvero a cuore il popolo ebraico, chi ha pianto per Auschwitz, ha il dovere di gridare oggi contro Gaza.

Non per negare l’identità di Israele, ma per salvarne l’anima. Non per difendere Hamas, ma per difendere l’umano. Non per condannare un popolo, ma per svegliare le coscienze.

“Le armi nucleari offendono l’umanità”, ha detto Papa Francesco. E potremmo dire lo stesso per le armi convenzionali che ogni giorno colpiscono civili a Gaza. “Chi sbaglia dovrà scontare la pena — ha aggiunto il Papa — ma non è questo il fine, bensì l’inizio della conversione”. C’è bisogno di conversione. Di uno sguardo nuovo. Di una giustizia che non sia vendetta.

Israele ha il diritto di esistere, ma non ha il diritto di distruggere. La Shoah non può essere usata per giustificare un’altra Nakba. La memoria non può diventare alibi per la barbarie.

Il mondo sta osservando. E la storia giudicherà.