La nuova guerra dei cartelli in Sinaloa è un terremoto sociale: famiglie in fuga, reclutamento forzato, ospedali sotto tiro. E lo Stato arretra dove la comunità prova a resistere.
Quando il fragore è arrivato a Culiacán non è stato un fulmine a ciel sereno. Da settimane la città viveva quella «calma tesa» che precede le tempeste: voci, segnali, presagi. Poi, all’alba di un lunedì di settembre, la realtà ha rotto il silenzio: inseguimenti, blocchi stradali, sparatorie in quartieri popolari e davanti a luoghi di lavoro. È l’ennesimo ciclo di violenza interna al cartello di Sinaloa, storicamente cuore pulsante del narcotraffico messicano. Ma stavolta c’è qualcosa di diverso: la guerra è diventata quotidianità urbana, si è allargata alla campagna, ha travolto i servizi, ha bussato alle porte delle case e perfino delle chiese.
Il detonatore ha un nome e una geografia di tradimenti. Le faide tra i “Chapitos” – i figli di El Chapo Guzmán – e i fedelissimi del vecchio alleato Ismael “Mayo” Zambada hanno spezzato equilibri precari, trascinando nella contesa altri boss locali, nuove milizie, antiche rivalità. Il risultato è un mosaico instabile di potere armato, una «Idra» che ricresce ogni volta che lo Stato taglia una delle sue teste.
Le cifre – sempre parziali, sempre incerte – raccontano l’ordine di grandezza: in dodici mesi gli omicidi sono esplosi rispetto all’anno precedente; le segnalazioni di persone scomparse superano quota duemila; si moltiplicano i casi di reclutamento forzato di giovani, persino sottratti a centri di recupero dalle stesse bande. Gli ospedali non sono più zone franche: sale d’attesa crivellate, feriti “finiti” da finti infermieri. La paura non è solo il rumore delle armi: è l’odore che riaccende il trauma, il suono metallico di una serranda che ricorda una raffica, il corpo che s’irrigidisce davanti a un motorino che scoppietta.
Ma la mappa della violenza non finisce nei viali della capitale. Il fronte si è arrampicato sulle montagne che hanno fatto la storia della “narcoeconomia” – dall’amapola all’eroina, poi alla metamfetamina e al fentanil – spingendo intere famiglie a scendere dalla sierra verso i margini urbani. Attorno al grande “basurón”, il deposito di rifiuti, nascono colonie improvvisate: baracche, mense comunitarie, piccoli miracoli di mutuo soccorso femminile. Qui, dove la povertà è più antica dei cartelli, si vede senza filtri ciò che la guerra produce davvero: precarietà, lavori informali, bambini sradicati, anziani che rinunciano alla terra e alla memoria.
Lo Stato, intanto, appare ambivalente: una presenza massiccia di militari e posti di blocco nei punti nevralgici, una cronica insufficienza di indagini e identificazioni nei territori periferici. A Culiacán circolano colonne dell’Esercito, ma a pochi chilometri mancano investigatori, periti, protezione ai testimoni. Si confisca come non mai, si arresta, eppure l’economia illegale resiste perché è diventata infrastruttura sociale: una rete che distribuisce reddito, impone regole, punisce e “protegge”, sostituendosi allo Stato dove lo Stato ha smesso di essere credibile.
Perché tutto questo riguarda anche noi? Perché la guerra dei cartelli è il lato oscuro di catene economiche globali di domanda e offerta – di stupefacenti, di armi, di strumenti finanziari – e perché l’Europa non è un osservatore neutrale: è mercato, snodo logistico, piattaforma di riciclaggio. Illudersi che Culiacán sia lontana significa non capire che le cause della violenza viaggiano con la stessa facilità delle merci.
C’è però un’altra notizia, meno visibile e più tenace: la società civile che non cede. Le madri che scavano con le proprie mani alla ricerca dei figli; i gruppi di ascolto dove il pianto diventa terapia; le parrocchie che offrono rifugio; gli operatori che tengono in piedi mense e doposcuola. È l’“economia della speranza” che continua a funzionare mentre tutto il resto sembra franare.
Per un giornale come Avvenire, il punto non è solo la denuncia – doverosa – dei crimini, ma la domanda su come si costruisce pace in un territorio attraversato da interessi giganteschi. Tre verità scomode emergono da Culiacán:
- La sicurezza senza giustizia sociale è un vicolo cieco. Senza lavoro, scuola, salute, i giovani restano manodopera di guerra.
- La repressione senza istituzioni credibili alimenta il mostro. Se l’indagine non arriva, se i corpi non hanno nome, se la gente non si fida, vince la legge del più forte.
- Il narcotraffico è un ecosistema transnazionale. Servono politiche che vadano dalla prevenzione sanitaria in Nordamerica alla lotta europea al riciclaggio, fino allo sviluppo rurale in Messico.
«Beati gli operatori di pace», dice il Vangelo. In Sinaloa hanno il volto stanco di chi regge una comunità, di chi cucina per gli sfollati, di chi non smette di cercare. Non basterà a fermare le raffiche, ma indica una direzione: ricucire ciò che i cartelli strappano, perché ogni vita torni ad avere un nome, una casa, un futuro.