Dal 10 al 21 novembre, a Belém, in Brasile, si terrà la trentesima Conferenza delle Parti (COP30) sul clima. Ma a pochi giorni dall’apertura, il clima – politico, più che meteorologico – appare già turbato. Meno capi di Stato, meno delegazioni, meno entusiasmo. E soprattutto, un’assenza che pesa più di tutte: quella degli Stati Uniti.
Donald Trump, tornato alla Casa Bianca, ha liquidato il cambiamento climatico come “la più grande truffa mai messa in scena”. Una frase che non sorprende, ma che oggi suona come un colpo al cuore del multilateralismo ambientale. Gli Stati Uniti sono fra i maggiori responsabili delle emissioni globali, ma anche fra i principali finanziatori della transizione ecologica. Quando una potenza simile decide di non presentarsi, si apre un vuoto politico e simbolico che nessun altro può colmare facilmente.
Il primo effetto è l’indebolimento del processo negoziale: senza la leadership americana, la COP rischia di trasformarsi in un esercizio di retorica. Il secondo effetto è la perdita di fiducia: se il Paese che dovrebbe dare l’esempio si defila, perché mai altri dovrebbero fare di più? Come ha detto il segretario generale dell’ONU, si tratta di una “negligenza mortale”.
Ma non è solo l’assenza di Washington a preoccupare. Le stime indicano che questa COP30 avrà un numero ridotto di delegazioni e di leader mondiali rispetto alle edizioni precedenti. Una partecipazione più bassa significa minore pressione collettiva, meno possibilità di accordi vincolanti, più spazio per le manovre di chi vuole frenare. Il rischio è che il vertice diventi più una passerella che un laboratorio di soluzioni.
Il Brasile, ospitando la conferenza nel cuore dell’Amazzonia, voleva offrire al mondo un segnale: la foresta come simbolo di una nuova alleanza tra Nord e Sud del pianeta. Ma anche Brasilia riconosce che la cornice internazionale è fragile. Senza il contributo americano – economico, tecnologico e politico – la sfida diventa più complessa.
La vera posta in gioco, dunque, va oltre le foreste e le emissioni: riguarda la credibilità stessa del sistema multilaterale. Se la COP30 riuscirà a dimostrare che il mondo può andare avanti anche senza gli Stati Uniti in prima fila, allora si aprirà una nuova stagione, con protagonisti emergenti come la Cina, l’Unione Europea, l’India e lo stesso Brasile. Ma se prevarranno le divisioni e le inerzie, sarà un duro colpo per l’intera architettura climatica globale.
Intanto, la società civile non intende fermarsi. ONG, regioni, città, imprese responsabili stanno già agendo oltre le parole, consapevoli che il tempo delle promesse è finito. “Non vogliamo più dichiarazioni, ma azioni concrete”, ripetono gli attivisti.
Forse è proprio questo il senso più profondo della COP30: trasformare l’assenza in opportunità. Fare del vertice di Belém un punto di svolta, nonostante tutto.
Perché la lotta al cambiamento climatico non può aspettare la volontà dei grandi, né essere sospesa dai capricci di un presidente.
Il pianeta continua a scaldarsi, le comunità continuano a soffrire, e la finestra per restare sotto la soglia di +1,5 °C si chiude rapidamente.
Se Belém saprà dare un segnale di responsabilità, la storia ricorderà questa COP non come quella delle assenze, ma come quella della rinascita dell’azione collettiva.
Ma se prevarrà l’immobilismo, resterà solo una frase da ricordare: il cambiamento climatico non aspetta nessuno.
