L’omicidio di Miguel Uribe Turbay e l’eterna maledizione della violenza politica

Miguel Uribe Turbay, 39 anni, senatore e candidato presidenziale colombiano, è stato assassinato a colpi di pistola mentre parlava a un comizio nel quartiere Modelia di Bogotá. Per i media internazionali è la notizia di un’esecuzione che colpisce un volto noto della destra e un oppositore del presidente Gustavo Petro; per la Colombia, è l’ennesimo déjà-vu di un paese che credeva di aver archiviato la stagione dei killer politici e invece continua a contare i morti.

La storia di Uribe Turbay è già di per sé segnata dal sangue: figlio della giornalista Diana Turbay, uccisa durante un tentativo di liberazione da un sequestro ordinato da Pablo Escobar, nipote dell’ex presidente Julio César Turbay Ayala, era cresciuto nel segno della politica, ma anche con la consapevolezza di cosa significhi essere un bersaglio. Il suo omicidio rimanda agli anni ’80-’90, quando nomi come Luis Carlos Galán, Bernardo Jaramillo e Carlos Pizarro finirono su lapidi invece che su schede elettorali.

Questa volta, il presunto esecutore materiale sarebbe un ragazzo di appena 14 anni, arrestato poche ore dopo. Un dettaglio che racconta molto più di quanto sembri: intere generazioni crescono in contesti dove la criminalità organizzata, le dissidenze armate e le economie illegali sono le vere scuole di formazione. La pista principale porta alla Segunda Marquetalia, gruppo di ex FARC tornati alle armi sotto la guida di Iván Márquez, ma le indagini restano aperte e nessuno si è ancora assunto la responsabilità.

Il presidente Petro ha parlato chiaro: «Non è la vendetta il cammino della Colombia… Ogni volta che un colombiano viene assassinato, è una sconfitta della vita». Frasi giuste, ma già sentite. Perché la verità è che la cosiddetta “paz total” è appesa a un filo: firmare accordi non basta, se lo Stato non riesce a garantire controllo del territorio, protezione dei candidati e un’alternativa concreta al reclutamento armato.

Uribe Turbay, avvocato con studi ad Harvard e carriera politica iniziata giovanissimo, era diventato una delle voci più dure contro le trattative parallele con i gruppi armati. Per qualcuno era un simbolo di coerenza; per altri, un ostacolo. Per tutti, la sua uccisione è un segnale che la politica colombiana resta, in troppi casi, una questione di vita o di morte.

Per un giornale come Mediafighter, questa non è solo cronaca: è un caso di libertà politica negata, di sicurezza pubblica inesistente, di un paese dove la democrazia è ancora ostaggio della violenza. Se la Colombia vuole davvero cambiare, deve iniziare dalle basi: togliere ai killer i mandanti, alle bande i ragazzini, e ai cittadini la paura. Finché non accadrà, la prossima pallottola avrà già un nome.