Charlie Kirk, giovane leader conservatore, è stato ucciso con un colpo di pistola durante un dibattito in università. L’arresto del presunto killer non cancella il dramma: la politica che diventa violenza, i social che deridono la morte, le istituzioni che promettono repressione. La vera sfida è tornare a discutere senza odiare.
L’arresto del ventiduenne Tyler Robinson nello Utah, accusato di aver ucciso con un solo colpo di pistola il giovane attivista di destra Charlie Kirk durante un evento universitario, chiude una caccia all’uomo ma non risolve il dramma. La morte di Kirk, 31 anni, figura vicina a Donald Trump e capace di catalizzare folle di giovani conservatori nei campus, è un colpo al cuore della democrazia americana. Non solo perché spezza una vita e una famiglia, ma perché mostra a tutti quanto fragile sia oggi la libertà di parola negli Stati Uniti.
La tragedia, come spesso accade, non si è fermata alla cronaca nera. È diventata subito terreno di contesa politica e ideologica. Trump ha proclamato cinque giorni di lutto nazionale, definendo l’omicidio “un licidio efferato” e attribuendone la responsabilità alla “sinistra radicale”. Biden e Obama, dall’altra parte, hanno condannato senza esitazione la violenza, ricordando che “non c’è posto per questo orrore in una democrazia”.
Ma il vero segnale inquietante è arrivato dal Dipartimento di Stato, attraverso il vice segretario Brian Landau: “Sono rimasto disgustato nel vedere alcuni sui social media che lodavano o razionalizzavano l’evento”, ha detto, annunciando istruzioni ai funzionari consolari per monitorare e sanzionare cittadini stranieri con visti per gli Stati Uniti che abbiano inneggiato all’omicidio. Migliaia di segnalazioni sono già arrivate in poche ore. La tragedia di un uomo rischia così di diventare benzina sul fuoco, alimentando una deriva securitaria che unisce repressione interna, politiche restrittive sull’immigrazione e controllo dei social media.
La cronaca restituisce dettagli che fanno rabbrividire. Il governatore dello Utah Spencer Cox ha confermato l’identità del sospettato e ha rivelato che Robinson era stato consegnato da membri della sua stessa famiglia, dopo che aveva lasciato intendere di aver commesso l’attentato. Non era uno studente della Utah Valley University, ma vi si era recato con largo anticipo, guidando una Dodge Challenger e portando con sé un fucile. Le cartucce ritrovate sul luogo del delitto contenevano scritte grottesche e violente: “Ehi, fascista, prendi questa”, “Se stai leggendo questo sei gay haha” e persino il testo di Bella ciao, l’inno della Resistenza italiana. Segni confusi, apparentemente incoerenti, che raccontano però la radicalizzazione di un giovane “pieno di odio”, come ha ammesso la sua famiglia.
Siamo di fronte a un bivio. Da un lato, l’omicidio Kirk mette in luce quanto sia corrosivo il clima d’odio che ha trasformato il confronto politico in una guerra per delegittimare l’altro. Dall’altro, le reazioni mostrano il pericolo opposto: quello di strumentalizzare il dolore per rafforzare politiche divisive, rafforzando muri anziché costruire ponti.
C’è un dato che non possiamo ignorare: in America, come in altre democrazie ferite, non è più scontato che si possa parlare liberamente senza rischiare la vita. E se a qualcuno, sui social, viene spontaneo esultare davanti a una morte, vuol dire che siamo già oltre la soglia della barbarie. Non basta indignarsi: occorre interrogarsi sul perché la cultura del nemico abbia preso il sopravvento, fino a contaminare intere generazioni di giovani.
Charlie Kirk divideva, era una figura controversa, ma aveva scelto i campus come luogo di battaglia verbale. Che sia stato assassinato proprio lì, mentre dibatteva con un giovane che non condivideva le sue idee, è un paradosso tragico e un monito: la libertà di parola va difesa sempre, perché senza di essa la democrazia muore.
Il rischio, adesso, è duplice: da un lato l’esaltazione di Kirk come “martire” della destra, dall’altro la tentazione di usare la sua morte per giustificare ulteriori restrizioni. Nessuna delle due strade guarisce la ferita. La cura sta altrove: nel tornare a vedere nell’avversario non un nemico da abbattere, ma una persona da ascoltare.
Perché il vero problema non è soltanto un giovane con un fucile, ma una società che ha smarrito la capacità di discutere senza odiare.