Diciotto anni dopo l’omicidio di Chiara Poggi, il caso Garlasco continua a riemergere con forza nella cronaca e nella coscienza collettiva. Ogni nuova notizia – l’ultima riguarda il dna rintracciato sotto le unghie della vittima – riapre una ferita mai rimarginata, non solo per la famiglia, ma per un Paese intero che chiede trasparenza e certezza.

L’ipotesi di corruzione che coinvolge l’ex procuratore Mario Venditti, accusato di aver ricevuto denaro per favorire un indagato, aggiunge sconcerto e inquietudine. Saranno le indagini a stabilire la verità, ma già il sospetto basta a incrinare la fiducia nelle istituzioni. Perché una giustizia che appare vulnerabile ai compromessi rischia di perdere il suo fondamento etico e civile.

Il caso Garlasco mostra quanto sia fragile un sistema in cui indagini incomplete, intercettazioni non trascritte, rapporti ambigui e piste tralasciate alimentano sospetti più che certezze. E ricorda che la giustizia non è solo un insieme di procedure tecniche: è anche un atto morale, un servizio al bene comune e alla dignità della vittima.

Chiara Poggi non è un fascicolo, ma una persona. Non si può ridurre il suo ricordo a un numero di protocollo o a un caso mediatico. Ogni ritardo, ogni opacità, ogni sospetto di corruzione è un tradimento della sua memoria e del dolore della sua famiglia. Come ha ricordato Papa Francesco, «la corruzione è il verme che corrode la speranza»: e quando tocca la giustizia, corrode la fiducia di un intero popolo.

La vicenda impone un passo ulteriore: non solo accertare colpe, ma ristabilire credibilità. La verità giudiziaria non sempre riesce a coincidere con la verità sostanziale, ma senza giustizia la società non guarisce e il male rimane senza nome. Il nuovo filone d’indagine, con i suoi accertamenti genetici e le verifiche su piste trascurate, potrà forse riaprire spiragli di chiarezza.

Chiara e la sua storia ci ricordano che la giustizia non è una formalità, ma un cammino di verità e di responsabilità. E che un popolo che non sa custodire la memoria delle sue vittime è destinato a smarrirsi. A diciotto anni dal delitto, non servono altre incertezze: serve una parola definitiva, onesta, trasparente. Una parola che restituisca dignità alla vittima, credibilità alle istituzioni e speranza a chi attende ancora la verità.