Le presidenziali del 12 ottobre e la lunga ombra di Paul Biya. Tra illusioni democratiche, opposizione divisa, Chiesa in tensione e un popolo stanco ma non domato.

Nel cuore dell’Africa centrale, il Camerun si è recato ancora una volta alle urne. Ma definirle “elezioni” – nel senso pieno del termine – è forse un atto di fede più che di realismo. Paul Biya, 92 anni, già salito al potere nel 1982, si candida per l’ottavo mandato presidenziale. Quarantatré anni di potere ininterrotto che hanno trasformato il capo di Stato più anziano del mondo in una figura quasi mitologica: invisibile, intoccabile, inamovibile. Un “presidente-fantasma”, come lo chiamano alcuni in patria, che governa più da Ginevra o Parigi che da Yaoundé, tra silenzi, apparizioni pilotate e una propaganda che oggi si affida perfino all’intelligenza artificiale per diffondere video di campagna.

Eppure, l’apparato tiene. Il sistema Biya è sopravvissuto a crisi interne, a proteste giovanili, alla guerra civile strisciante nelle regioni anglofone, alla corruzione endemica e al collasso delle infrastrutture. Nel 2025, come nel 2018 e nel 2011, lo scenario si ripete: una molteplicità di candidati – ben undici – spezzetta il fronte dell’opposizione, molti dei quali ex ministri riciclati e pronti, forse, più a negoziare incarichi che a ribaltare lo status quo. Il caso emblematico è Issa Tchiroma Bakary: 79 anni, ex portavoce del governo, ora passato all’opposizione, capace di infiammare le piazze nel nord del paese ma pur sempre figlio del sistema.

Un’elezione, mille trucchi

Il voto del 12 ottobre si è svolto in un clima che sfiora il grottesco. Le urne si sono aperte senza il principale oppositore del regime, Maurice Kamto, escluso dalla corsa per motivi poco chiari. Le liste elettorali, truccate o incomplete, escludono milioni di cittadini. Il voto è a turno unico, il che impedisce ogni forma di ballottaggio. Gli osservatori indipendenti – tra cui l’Unione Africana – sono stati ammessi, ma non senza sospetti e limitazioni. Intanto, si comprano voti con sacchi di riso e scatole di sardine, in un paese in cui la miseria rende tutto negoziabile.

Il governo ha perfino accusato le piattaforme indipendenti di voler “manipolare l’opinione pubblica”, colpevoli solo di voler verificare i risultati in modo trasparente. È il sintomo classico di una democrazia svuotata dall’interno: si vota, ma il risultato è già scritto. Il voto non è più un diritto, ma una liturgia.

La Chiesa come specchio del paese

In questo teatro, l’unico attore a sembrare ancora capace di alzare la voce – seppure diviso al suo interno – è la Chiesa cattolica. Con quasi il 40% della popolazione che si dichiara cattolica, l’episcopato camerunese rappresenta una forza morale e sociale di peso. Mentre alcuni vescovi, come Mgr Samuel Kleda (Douala), criticano duramente il regime e invitano Biya ad abbandonare la scena (“a 92 anni, dovrebbe essere accudito, non governare”), altri – come Mgr Mbarga, arcivescovo di Yaoundé – mantengono un atteggiamento più prudente, se non apertamente favorevole alla stabilità garantita dal presidente.

Nella sua lettera pastorale, la Conferenza Episcopale ha tracciato il profilo ideale del “buon candidato”: capace di conoscere il paese, presente, trasparente, impegnato nella lotta alla corruzione. È un identikit che esclude, di fatto, l’attuale presidente. Ma la divisione interna della Chiesa ne limita l’impatto: se il clero non parla con voce unitaria, anche la sua denuncia rischia di finire nel coro assordante delle lamentele che non producono cambiamento.

Giovani, povertà e una speranza fioca

Il vero paradosso di queste elezioni è tutto qui: in un paese in cui la metà della popolazione ha meno di vent’anni, a decidere il futuro è un uomo che ne ha quasi cento. Eppure, proprio i giovani, i disoccupati urbani, gli abitanti delle periferie anglofone dilaniate dalla guerra civile, sembrano ormai troppo rassegnati per protestare. La frustrazione si sfoga nei social media, ma non nelle strade. Il Camerun è stanco. E la stanchezza, quando diventa sistema, è la più grande alleata dell’autoritarismo.

Secondo la Banca Mondiale, il 40% dei camerunesi vive sotto la soglia di povertà. Le scuole crollano, le strade sono dissestate, l’assistenza sanitaria è un miraggio. Ma il potere resta saldo, protetto da una combinazione di controllo militare, clientelismo etnico e finzione democratica. “Il Camerun è il Camerun”, diceva Biya per giustificare l’ingiustificabile. E il mondo ha lasciato fare.

Illusione multipartitica, sostanza monarchica

Paul Biya ha istituito il multipartitismo negli anni ’90. Ma ha saputo svuotarlo, creando una finta pluralità fatta di micro-partiti senza presa popolare, spesso finanziati dallo stesso regime. Il risultato è un’opposizione disorganica, litigiosa, incapace di coalizzarsi. Il sistema è talmente sofisticato da sembrare democratico. Ma è solo una democrazia di facciata.

La vera domanda

Alla fine di tutto, non resta che una domanda: a cosa servono le elezioni in Camerun? Se non si può scegliere davvero, se le alternative sono neutralizzate, se il potere resta concentrato nelle mani di un uomo invisibile, a cosa serve questo rituale settennale?

Forse a poco. Ma finché, da qualche parte, ci sarà un giovane che va a cercare la sua tessera elettorale; un parroco che denuncia in chiesa la corruzione; un giornalista che racconta le frodi; una donna che rifiuta di vendere il suo voto per un sacco di riso; allora ci sarà ancora una possibilità. Non per oggi. Ma per domani.

E anche questo, in Camerun, è già molto.