Negli Stati Uniti spopolano i “Bible Influencers”: personaggi biblici generati dall’intelligenza artificiale raccontano la loro storia in diretta social, parlando il linguaggio dei giovani. Ma dietro l’illusione di una fede più accessibile si nasconde il rischio di banalizzare il Vangelo e trasformare la Parola in spettacolo.

«Ciao ragazzi, sono la madre di Gesù e gli ho appena detto che il vino è finito. Adesso è ufficialmente un suo problema». È con questo tono da influencer pop che una Maria dallo sguardo deciso, resa iperrealisticamente da un’intelligenza artificiale, introduce la scena delle Nozze di Cana, mentre sullo sfondo si balla e si festeggia. La clip è uno dei video più virali del momento negli Stati Uniti: oltre due milioni di visualizzazioni, centinaia di migliaia di like e migliaia di condivisioni.

Benvenuti nell’universo dei Bible Influencers, personaggi biblici reimmaginati grazie all’intelligenza artificiale per parlare direttamente agli utenti della Generazione Z (tra i 15 e i 30 anni), su TikTok, Instagram e YouTube. Mosè che apre il Mar Rosso con effetti speciali da colossal Marvel, Noè che trasmette dal ponte dell’Arca come fosse in una diretta Twitch, Maria Maddalena che racconta in prima persona la sua liberazione dai demoni come se fosse un percorso di “healing” spirituale. Tutto reso credibile da immagini fluide, voci sintetiche e un’estetica degna di una serie Netflix. E tutto generato, interamente, da intelligenze artificiali video e linguistiche.

Un fenomeno virale: religione e mercato

A guidare questa ondata non sono (solo) istituzioni religiose, ma imprenditori digitali come PJ Accetturo (alias JP Ace), produttore e “regista IA” che, attraverso la sua società Genre.ai, ha lanciato le prime serie di “Bible Influencers” su larga scala. La tecnologia utilizzata? La recentissima Veo 3 di Google, capace di trasformare un semplice prompt in una clip cinematografica in pochi minuti.

Accetturo ha dichiarato che con 2.000 dollari ha prodotto, per la finale NBA, uno spot IA che normalmente ne avrebbe richiesti 500.000. Se questo è il mercato, la religione-spettacolo rischia di diventare il suo prossimo terreno fertile. E in effetti, l’ambiente evangelico americano — da sempre ricettivo alle novità tech — ha già iniziato a usare questi strumenti su piattaforme come Pray.com o The AI Bible, legittimando una vera e propria “influencer theology”.

Tra Vangelo e viralità: opportunità o profanazione?

La questione che si pone è tutt’altro che banale: possono i social reinterpretare la Scrittura in chiave da reel virale senza snaturarne il contenuto teologico?

Il rischio è chiaro: sacralità e spettacolarizzazione non sono sempre compatibili. Se da un lato questi contenuti possono avvicinare i giovani a storie bibliche che non leggerebbero mai su carta, dall’altro rischiano di ridurre l’esperienza della Rivelazione a meme, slogan, battute, espressioni semplificate o addirittura fuorvianti. La lingua della fede non è solo trasmissione di contenuti, ma è anche stile, silenzio, profondità.

Papa Francesco, nella Evangelii Gaudium, ha scritto che «non basta trasmettere contenuti dottrinali»; è necessario creare un linguaggio che comunichi l’amore di Dio. Eppure, in queste clip, Maria sembra più una “mamma newyorkese” che la Vergine dell’Annunciazione, e David, prima di sfidare Golia, si atteggia come un rapper alla moda.

Algoritmi che catechizzano?

Dietro la viralità di queste produzioni c’è un algoritmo che premia ciò che stupisce, diverte, emoziona in pochi secondi. Ma l’annuncio cristiano, come insegna la Tradizione, richiede tempo, pazienza, testimonianza personale. Non è un video, ma una vita.

Tuttavia, sarebbe sbagliato chiudere del tutto la porta: i “Bible Influencers” pongono alla Chiesa una sfida seria. L’evangelizzazione digitale non può essere delegata agli algoritmi o lasciata in mano a soggetti esterni. La pastorale giovanile deve saper abitare le piattaforme, formare cristiani competenti nel digitale e nel teologico, e proporre contenuti belli, veri e rispettosi della dignità della Parola.

La fede non si copia-incolla

Non è peccato usare l’IA. È peccato lasciarla fare tutto da sola, senza discernimento, senza afflato spirituale, senza senso ecclesiale. Un’immagine commovente può toccare il cuore, ma solo una comunità cristiana viva e presente può generare discepoli autentici.

Come ha scritto la CIVCSVA nel documento Economia a servizio del carisma e della missione (2018), la tecnologia va usata “al servizio del carisma”, non del profitto o del consenso virale. Serve una visione integrale, fondata sulla verità del Vangelo e sulla responsabilità educativa della comunicazione.

L’epoca dei “Bible Influencers” è arrivata. Non possiamo ignorarla, ma dobbiamo interrogarla. Quale immagine di Dio comunica? Quale relazione propone con Cristo? Quale Chiesa ne emerge?

Se l’obiettivo è quello di riscoprire i personaggi biblici come uomini e donne reali, allora ben venga. Ma se li si trasforma in maschere sociali da monetizzare, allora siamo davanti a un fenomeno pericoloso, che riduce la Parola a prodotto, e la fede a click.

In fondo, come ci ricorda il Vangelo, non basta dire “Signore, Signore” davanti a uno schermo. Occorre fare la volontà del Padre, anche nel tempo degli algoritmi.