Donald Trump l’ha annunciato come un “accordo storico” che metterà fine a 35 anni di ostilità tra Armenia e Azerbaigian. Foto patinate alla Casa Bianca, bandiere in bella vista, sorrisi calibrati. “Ora sono amici, e lo saranno per molto tempo”, ha proclamato il presidente statunitense, già pregustando la candidatura al Nobel per la pace. Ma dietro la retorica e il nome altisonante – “Trump route for international peace and prosperity” – la realtà è meno idilliaca e molto più complessa.

Cause profonde: un conflitto che nasce prima di Trump

Il nodo del Caucaso meridionale non è nuovo: affonda le sue radici nel crollo dell’Unione Sovietica, quando le repubbliche appena indipendenti si sono contese il Nagorno-Karabakh, enclave a maggioranza armena all’interno del territorio azero. Negli anni ’90 la prima guerra ha portato a decine di migliaia di morti e a una fragile tregua. Poi, nel 2020, il conflitto si è riacceso con la riconquista azera di ampie porzioni del territorio, grazie anche al sostegno militare e tecnologico della Turchia. L’Armenia, storicamente appoggiata da Mosca, si è trovata progressivamente isolata, complice la distrazione russa dovuta alla guerra in Ucraina.

Il corridoio di Zangezur: il vero premio

Il nuovo accordo ruota attorno al corridoio di Zangezur, striscia di territorio armeno che collega l’Azerbaigian continentale con l’exclave del Nakhchivan, confinante con la Turchia. Per Baku significa continuità territoriale e accesso diretto ad Ankara; per la Turchia, l’occasione di far passare nuovi gasdotti verso l’Europa; per l’Armenia, una garanzia indiretta contro un’ulteriore invasione, ma al prezzo di una sovranità parzialmente ceduta: la “via di Trump” sarà amministrata dagli Stati Uniti attraverso un consorzio ad hoc.

Sul piano energetico, l’impatto è enorme: l’Azerbaigian è uno dei principali esportatori di gas in crescita, e l’Italia importa da Baku circa il 20% del proprio fabbisogno. Sul piano geopolitico, la mossa consente a Washington di inserirsi in un’area cruciale per le rotte energetiche globali, ridimensionando l’influenza storica di Russia e Turchia.

Gli altri giocatori: Mosca, Ankara e… Gaza

La Russia considera il Caucaso meridionale il proprio “giardino di casa”, ma oggi ha meno leve per controllarlo, stretta tra la guerra in Ucraina e le sanzioni occidentali. La Turchia, invece, esce rafforzata: senza sparare un colpo, ottiene il passaggio che inseguiva da anni e che rientra nel sogno neo-ottomano di Recep Tayyip Erdoğan.

Gli Stati Uniti, e in particolare Trump, capitalizzano politicamente: essere presenti in Zangezur significa anche monitorare gli scambi con l’Iran e ostacolare eventuali triangolazioni russe per aggirare le sanzioni. Ma qui si apre la contraddizione: il presidente che si propone come mediatore di pace nel Caucaso è lo stesso che non è riuscito a fermare la guerra in Ucraina e che non ha mosso passi concreti per fermare il massacro a Gaza. Mentre le bombe cadono su Rafah, Trump pensa al Nobel.

Pace o tregua temporanea?

La domanda resta: cosa accadrà se una delle parti deciderà di usare di nuovo la forza? Il conflitto tra Armenia e Azerbaigian non è solo questione di confini, ma di identità, memoria storica e ferite aperte. Il corridoio di Zangezur può essere una via commerciale e diplomatica, ma può anche diventare il prossimo fronte di scontro.

Trump presenta l’accordo come la fine di un’epoca; in realtà, è l’inizio di una fase in cui Washington diventa arbitro in un’area dove le tregue durano finché conviene. Più che una pace vera, sembra una partita geopolitica in cui il premio non è il Nobel, ma l’influenza su una delle zone più strategiche del mondo.