L’arresto a Tripoli del generale libico Osama Almasri — già al centro di un caso diplomatico e giudiziario che ha coinvolto anche l’Italia — riaccende il dibattito sui rapporti tra Roma e la Corte penale internazionale, sulle responsabilità istituzionali e sulla tutela dei diritti umani nel Mediterraneo. Un episodio che chiama in causa credibilità, trasparenza e coerenza nelle scelte di politica estera di un Paese che ha sempre rivendicato il primato del diritto.
L’arresto a Tripoli del generale libico Osama Almasri, accusato di torture e di almeno un omicidio, riapre un caso che pesa sulla coscienza pubblica italiana. A gennaio, fermato in Italia su mandato della Corte penale internazionale, fu rimpatriato su un volo di Stato per un vizio procedurale e sulla base di una parallela richiesta libica. Oggi, però, è proprio la Libia a fermarlo. E la domanda torna inevitabile: abbiamo perso un’occasione per scegliere la via più trasparente?
Le dinamiche geopolitiche sono complesse: a Tripoli gli equilibri militari sono cambiati e la milizia di cui Almasri era figura di spicco è stata ridimensionata. Ma resta l’impressione di un Paese – il nostro – che allora abbia preferito evitare frizioni piuttosto che affermare, in modo chiaro, il primato della giustizia internazionale.
Non si tratta di alimentare scontri politici: la verità non è strumento di parte. La credibilità di un Paese si misura nella coerenza con i principi che invoca, soprattutto quando si parla di diritti umani e tortura. L’Italia ha una storia di diplomazia umanitaria e di difesa della dignità delle persone nel Mediterraneo: per questo il caso Almasri tocca corde profonde.
Oggi, mentre Tripoli annuncia collaborazione con la Corte dell’Aja, le vittime e le loro famiglie guardano verso Roma e chiedono chiarezza. Non per umiliare qualcuno, ma per tutelare la fiducia nel diritto.
Perché la giustizia, quando arriva, chiede sempre trasparenza. E una democrazia matura trova la propria forza non nel negare le ombre, ma nel riconoscere, spiegare, imparare.
