C’è un modo cristiano di stare sulla soglia del tempo. Non è la fretta di archiviare, né l’illusione di ricominciare da zero, ma l’atto più umile e più alto: riconoscere un disegno. L’omelia di Papa Leone XIV ai Primi Vespri della Solennità di Maria Santissima Madre di Dio, nella Basilica di San Pietro, al termine dell’anno civile e del Giubileo, si muove tutta in questa chiave: leggere il tempo non come somma di eventi, ma come storia abitata da Dio.
La liturgia, ricorda il Papa, fa convergere due vertigini: il mistero di un Dio che nasce da una donna e il passaggio fragile da un anno all’altro. Maria, Madre di Dio, sta esattamente in questo crocevia. È il luogo umano in cui l’eterno entra nel tempo senza violarlo, e il tempo viene benedetto senza essere cancellato. Per questo, mentre il calendario si consuma, la Chiesa canta il Te Deum: non per ingenuità, ma per fede.
Al centro dell’omelia risuona una parola decisiva, paolina: “pienezza del tempo”. Non il tempo perfetto, non il tempo riuscito, ma il tempo visitato. Un tempo che ha un centro, un senso, un vertice: Cristo, nato da donna. È l’opposto della visione dominante, che vede la storia come campo di forze, di strategie, di conflitti per mercati e territori. Papa Leone XIV è netto: accanto al disegno di Dio, benevolo e misericordioso, operano altri “disegni”, che sono in realtà strategie armate, mascherate da ideologie o perfino da religione.
Maria, invece, non stratega ma credente, non potente ma disponibile, smaschera questi falsi progetti con il suo sguardo. Il Magnificat — che il Papa cita con forza — non è poesia intimista, ma profezia storica: Dio disperde i superbi, rovescia i potenti, innalza gli umili. È una lettura della realtà che non passa per i palazzi, ma per i cuori piccoli. Dio, dice Leone XIV, ama sperare con il cuore dei piccoli.
Qui l’omelia si fa sorprendentemente attuale. In un mondo che sembra muoversi solo per interessi e paure, il futuro continua a essere portato avanti da uomini e donne sconosciuti, ma non a Dio. Persone che sperano senza clamore, che credono in un domani non perché tutto vada bene, ma perché qualcuno lo tiene nelle sue mani. È una teologia della storia che non nasce nei laboratori del potere, ma nelle cucine, negli ospedali, nelle periferie, nelle famiglie stanche.
Non è un caso che il Papa evochi Pietro, il pescatore di Galilea. Anche la Chiesa nasce così: non da un progetto brillante, ma da una fede semplice e generosa, tanto fragile quanto affidabile. E non è un caso che tutto questo venga detto a Roma, presso la tomba dell’Apostolo, alla fine di un Giubileo. Roma — ricorda Leone XIV — non è città del Giubileo per le sue glorie, ma per il sangue dei martiri. Non per la potenza, ma per la testimonianza.
Da qui nasce un augurio che è anche un esame di coscienza: Roma sia all’altezza dei suoi piccoli. Dei bambini, degli anziani soli, delle famiglie in difficoltà, dei migranti che sperano in una vita dignitosa. È un criterio evangelico, non sociologico. Una città è giudicata da come custodisce chi non conta.
L’omelia si chiude come era iniziata: sotto lo sguardo di Maria, Salus Populi Romani. Non come rifugio devozionale, ma come intercessione viva perché la città e il mondo restino dentro il disegno di Dio. Un disegno che non schiaccia la libertà, ma la chiama; che non cancella il dolore, ma lo attraversa; che non promette successo, ma speranza.
Alla fine dell’anno, il cristiano non fa bilanci trionfalistici. Canta. E nel canto affida il tempo — passato e futuro — a una Madre.
