Sono saliti di notte, a largo del Mediterraneo, con i fucili puntati e i laser accesi. Cinque soldati israeliani a bordo di una piccola imbarcazione di pace, parte della Global Sumud Flotilla, partita un mese prima da Barcellona. La missione era semplice: portare aiuti umanitari a Gaza e rompere, simbolicamente, un assedio che da diciassette anni toglie respiro a due milioni di persone.

Invece, si è trasformata nell’ennesimo atto di forza di uno Stato che non tollera più nemmeno i simboli.

Tra gli attivisti c’erano italiani, turchi, scozzesi, giornalisti, parlamentari. C’era anche Greta Thunberg, la giovane attivista svedese, che — secondo varie testimonianze — è stata avvolta in una bandiera israeliana e circondata da agenti che ridevano e si scattavano selfie. Il tutto, mentre gli altri venivano ammanettati, fatti inginocchiare e insultati.

Un messaggio che non doveva arrivare

Gli attivisti raccontano ore di detenzione, interrogatori senza avvocati, celle sovraffollate, umiliazioni continue. Non erano armati, non portavano altro che cibo, farmaci, libri, bandiere di pace. Ma il potere, quando ha paura, reagisce con la violenza.

La frase di un soldato, rivolta al capitano della nave, riassume l’atmosfera: «Quando i nani proiettano ombre lunghe, vuol dire che il sole è basso».

Un modo per dire che chi resiste, oggi, viene ridicolizzato, reso piccolo, deriso.

Eppure, quei “nani” avevano un obiettivo grande: denunciare l’assedio di Gaza, dove la popolazione è ridotta alla fame e la parola “genocidio” non è più solo un’accusa ma una realtà che si consuma giorno dopo giorno.

Il silenzio dell’Europa e la complicità italiana

Mentre gli attivisti venivano rinchiusi e deportati, l’Europa taceva. Il governo italiano, impegnato a non irritare l’alleato israeliano e la Casa Bianca, ha reagito con dichiarazioni formali e tardive.

Nessuna protesta diplomatica, nessuna richiesta di chiarimento pubblico. Solo la solita prudenza che somiglia sempre più alla paura.

È una prudenza che sa di complicità: la stessa che permette il commercio di armi, che giustifica le rappresaglie, che parla di “diritto alla difesa” mentre si contano migliaia di civili morti.

Nel frattempo, la premier Meloni, ad Assisi, nel giorno di San Francesco, portava un ramoscello d’ulivo e parlava di “pace costruita con responsabilità e ragionevolezza”.

Ma la pace non si costruisce con la neutralità davanti all’ingiustizia. La pace, ci ricordava don Tonino Bello, “è artigianato quotidiano”, non un gesto simbolico da esibire.

Il mare come confine morale

La Global Sumud Flotilla non era solo una barca. Era una linea tracciata nel mare, un confine morale.

Chi ha cercato di oltrepassarlo è stato trattato da criminale, come accade a chi tenta di attraversare altri mari, quelli dei migranti, dei profughi, dei disperati. È la stessa logica: chi porta aiuto diventa un nemico, chi costruisce ponti viene accusato di destabilizzare.

Eppure, nel racconto dei prigionieri, tra insulti e fascette di plastica, c’è anche una lezione. Hanno gridato “Palestina libera” dentro le celle, hanno resistito, come possono, alla barbarie.

Loro sono tornati a casa. Ma Gaza no.

Resta prigioniera.

E con lei, la nostra coscienza.