Kandahar si prepara a sfilare. Per il quarto anniversario della presa di Kabul e della restaurazione dell’Emirato islamico, i Talebani promettono nuove parate militari. Una dimostrazione di forza che vuole celebrare la “vittoria del 15 agosto 2021” e, allo stesso tempo, dissuadere ogni tentativo di ribellione armata.

Oggi, però, non c’è alcuna resistenza visibile: né nelle vallate montane, né nei quartieri urbani. Il regime si è consolidato, la società civile è fiaccata e le voci dissidenti sopravvivono solo in forma frammentaria.

Dalla repressione interna al riconoscimento esterno

Mentre la popolazione, e in particolare le donne, paga un prezzo altissimo in termini di diritti e libertà, la leadership talebana può rivendicare successi sul piano diplomatico.

A giugno, Mosca ha riconosciuto ufficialmente l’Emirato, dopo un avvicinamento iniziato da tempo. Il leader supremo Haibatullah Akhundzada, Amir al-muminin, ha preferito rafforzare i legami con i vicini piuttosto che tentare un’apertura verso un Occidente giudicato ancora ostile.

In questo quadro, i mandati di arresto della Corte penale internazionale per Akhundzada e Abdul Hakim Haqqani – accusati di persecuzione di genere – sono stati liquidati come “carta straccia”. L’Afghanistan aveva ratificato la Carta di Roma nel 2003, ma i Talebani non riconoscono la giurisdizione della Corte.

La strategia euro-atlantica, già indebolita, appare ora quasi inesistente. Alcuni governi preferiscono canali bilaterali “informali” per trattative specifiche, come ha fatto Berlino per il rimpatrio di 88 migranti afghani. Intanto, le porte si chiudono: Iran e Pakistan hanno già rimpatriato in pochi mesi due milioni di persone.

Il collasso umanitario

Secondo l’ultimo rapporto ONU, nel 2025 quasi 23 milioni di afghani avranno bisogno di assistenza vitale a causa di fame, malnutrizione, sfollamenti, disastri naturali e crisi economica. Ma i fondi si stanno prosciugando: la drastica riduzione del sostegno USA – che in passato rappresentava quasi metà del budget internazionale – lascia senza copertura milioni di persone.

Il team umanitario ONU ha ristretto il target: 12,5 milioni di beneficiari prioritari su 16,8 iniziali, per mancanza di fondi. Tradotto: un quarto di chi è in emergenza grave dovrà cavarsela da solo.

Il Programma Alimentare Mondiale avverte che quest’estate dieci milioni rischiano la fame. L’Unicef segnala 3,5 milioni di bambini sotto i cinque anni in stato di deperimento. Emergency, in un report di luglio, racconta di un sistema sanitario al collasso: 61% degli intervistati incontra gravi ostacoli per accedere alle cure, uno su quattro ha rinviato un’operazione chirurgica, oltre il 30% ha visto peggiorare una disabilità o ha perso un familiare per mancanza di assistenza. Le distanze, i costi e – per le donne – le restrizioni di movimento completano il quadro.

Economia bloccata

Senza cibo e senza cure, l’Afghanistan deve fare i conti anche con una paralisi finanziaria. L’isolamento dal sistema bancario internazionale e l’impossibilità della Banca centrale di stampare nuove banconote impediscono di sostituire quelle usurate. Secondo United against Inhumanity, persino Washington riconosce la gravità della crisi di liquidità.

Nonostante questo, i Talebani vantano entrate fiscali e minerarie stimate in circa tre miliardi di dollari annui, un dato superiore a quello registrato dal precedente governo. L’Emirato ha migliorato i rapporti con i Paesi confinanti, chiudendo di fatto ogni canale di rifornimento per eventuali opposizioni armate.

La centralizzazione del potere

L’analista Antonio Giustozzi, tra i massimi esperti dei Talebani, conferma che l’Amir governa da Kandahar con mano ferrea, marginalizzando il fronte più pragmatico e prendendo direttamente il controllo di forze di sicurezza, finanze e relazioni regionali.

Perfino Sirajuddin Haqqani, ministro degli Interni e potenziale rivale, è stato ridimensionato dopo un presunto tentativo di rovesciare la leadership con l’appoggio degli Emirati. Le tensioni interne persistono, ma finora non hanno scalfito il nucleo del potere.

Una società passiva

Il consenso popolare è limitato e geograficamente circoscritto, ma l’apatia sociale e la frammentazione delle reti civili rendono improbabile una mobilitazione di massa. Le uniche manifestazioni visibili sono quelle sporadiche di donne, subito represse.

Vent’anni di presenza internazionale hanno lasciato un’eredità ambigua: un tessuto sociale abituato a dipendere da finanziamenti esterni, senza sviluppare capacità autonome di resistenza politica. Oggi, in molte aree, il clero locale non è nemmeno omogeneo con la dottrina deobandi talebana, e in province come Nangarhar l’Emirato fatica a reclutare imam allineati per i consigli religiosi.

La vittoria senza pace

Quattro anni dopo, l’Emirato ha consolidato il controllo territoriale e diplomatico. Ma la “vittoria” è un miraggio per la popolazione: fame, povertà, restrizioni e isolamento si sommano in una spirale di disperazione.

La comunità internazionale, disillusa, arretra. E l’Afghanistan rischia di essere dimenticato, consegnato per intero a un regime che celebra con parate militari ciò che per milioni di cittadini è solo un anniversario di sofferenza.

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