Don Rodrigo Grajales Gaviria, cappellano della comunità latino-americana, è stato ferito gravemente, ma ora è fuori pericolo di vita
C’è una violenza che si comprende — per quanto non si giustifichi — e un’altra che disorienta perché non ha linguaggio, non ha rivendicazioni, non ha nemmeno una logica immediatamente decifrabile. L’aggressione a don Rodrigo Grajales Gaviria, sacerdote quarantacinquenne accoltellato al collo il 30 dicembre scorso, in pieno giorno, nel centro storico di Modena, appartiene a questa seconda e più inquietante categoria. Una violenza muta, improvvisa, senza racconto. E proprio per questo capace di colpire più a fondo.
Via Castelmaraldo non è una periferia degradata né una zona d’ombra. È un luogo attraversato, abitato, vissuto. Eppure lì, mentre svolgeva commissioni ordinarie — acquisti, assicurazioni, preparativi per un viaggio — un sacerdote è stato colpito alle spalle da una lama. Non una rapina, non un alterco, ma un’aggressione pura, che avrebbe potuto uccidere. Questione di millimetri.
Il fatto che don Rodrigo sia salvo — grazie al coraggio dei passanti, alla prontezza dei ristoratori, alla competenza dei sanitari — è una grazia che consola. Ma non basta a rimuovere la domanda che resta sospesa sull’asfalto: che cosa dice questo episodio del nostro tempo?
Un uomo esposto, prima ancora che un simbolo
Don Rodrigo non è una figura pubblica, non è un sacerdote “mediatico”. È un prete di strada nel senso più semplice e più vero del termine: cammina a piedi, incontra, ascolta, accompagna. Cappellano della comunità cattolica latinoamericana, presenza discreta tra gli ultimi, i fragili, gli sradicati. È proprio questa prossimità — evangelica, feriale, non protetta — a renderlo vulnerabile.
Qui emerge un nodo che la Chiesa conosce bene ma che spesso fatica a dire pubblicamente: il prete oggi è uno degli uomini più esposti nello spazio urbano. Senza scorta, senza difese, senza barriere. Presente nelle periferie esistenziali, a contatto con persone ferite, dissociate, squilibrate, talvolta violente. Non per imprudenza, ma per vocazione.
Il ministero sacerdotale, specie nelle città, si esercita sempre più spesso sul confine sottile tra carità e rischio, tra accoglienza e imprevedibilità. Il sacerdote è chiamato a non selezionare i volti, a non chiedere garanzie, a non blindarsi. Ma questo lo espone a una fragilità reale, fisica, quotidiana.
L’insicurezza che non fa rumore
L’elemento più inquietante di questa vicenda non è solo il coltello, ma il vuoto di motivazioni. Nessun movente chiaro, nessuna richiesta, nessuna spiegazione. L’aggressore — forse giovane, forse noto alla vittima, forse no — sembra appartenere a quella zona grigia della marginalità urbana dove disagio psichico, solitudine, rabbia e sradicamento si mescolano senza più argini.
È la violenza dell’atto “fine a se stesso”, tipica di una società in cui la dissociazione interiore diventa gesto, e il gesto diventa ferita inflitta a caso. In questo senso, l’aggressione a don Rodrigo non è solo un fatto di cronaca nera, ma una spia sociale: segnala una città — e un Paese — dove cresce una fragilità non intercettata, non curata, non accompagnata.
Il paradosso della Chiesa di strada
La Chiesa, giustamente, invita i suoi sacerdoti a uscire, a stare tra la gente, a non chiudersi nelle sacrestie. Ma l’episodio di Modena pone una domanda scomoda e necessaria: chi si prende cura di chi si prende cura? Chi tutela il prete che sceglie la prossimità? Chi accompagna pastoralmente il rischio?
Non si tratta di invocare città militarizzate o preti blindati. Sarebbe una sconfitta evangelica. Ma neppure si può ignorare che l’insicurezza urbana, unita al disagio psichico diffuso, crea contesti in cui la carità diventa pericolosa e il ministero un’esposizione continua.
Una ferita che interpella tutti
Don Rodrigo oggi è ricoverato, scherza, ringrazia, mostra una resilienza che commuove. La sua comunità prega, la diocesi è vicina, la città tira un sospiro di sollievo. Ma sarebbe un errore archiviare tutto come un “brutto episodio” risolto dal buon esito di un intervento chirurgico.
Quando un prete viene accoltellato in pieno giorno, non è solo un uomo a essere ferito. È l’idea stessa che lo spazio pubblico sia ancora un luogo di incontro e non di agguato. È la fiducia minima che consente alla prossimità di esistere.
La strada resta il luogo del Vangelo. Ma oggi è anche il luogo del coltello. Tenere insieme queste due verità, senza cedere né alla paura né all’ingenuità, è una responsabilità che riguarda tutti: Chiesa, istituzioni, comunità civile.
Perché una società che non protegge chi si espone per amore, alla fine, si ritrova più sola, più dura e più fragile.
.-.-.-.-.-.-.-
Da parte della redazione di Mediafighter i migliori auguri di guarigione e ripresa di ministero a don Rodrigo!
