Con una larga maggioranza, il Parlamento europeo ha approvato una risoluzione che sostiene l’estensione del ricorso all’aborto nei Paesi membri e apre alla modifica della Carta dei diritti fondamentali dell’Ue. Non è ancora una decisione definitiva, ma il segnale politico è forte: mentre Commissione e Consiglio sono chiamati all’ultima parola, l’Europa si scopre profondamente divisa su vita, competenze nazionali e senso stesso dei diritti umani.
C’è un passaggio, nel voto di Strasburgo sull’aborto, che dice più di molte dichiarazioni ufficiali: la trasformazione di una questione drammatica, personale, lacerante, in un emblema identitario da scolpire nella pietra dei “diritti fondamentali”. È qui che il dibattito smette di essere politico e diventa antropologico.
La risoluzione approvata dal Parlamento europeo a sostegno dell’iniziativa “My Voice, My Choice” non ha ancora valore normativo vincolante, ma ha un peso simbolico enorme. Non solo perché apre alla possibilità di finanziare l’aborto transfrontaliero con fondi europei, ma perché chiede esplicitamente di includere l’aborto nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione. In altre parole: non più una scelta regolata, dolorosa e limite, ma un diritto da garantire, promuovere, tutelare come pilastro dell’ordinamento europeo.
Il voto — ampio ma non plebiscitario — fotografa un’Europa profondamente divisa, anche al suo interno più “progressista”. Non tutti i Popolari hanno seguito la linea del sì, segno che la frattura non è semplicemente tra destra e sinistra, ma attraversa coscienze, culture politiche, storie nazionali. Ed è proprio questo il punto rimosso dal dibattito pubblico: l’Unione europea nasce e vive sul principio della sussidiarietà, cioè sul rispetto delle competenze e delle sensibilità degli Stati membri, soprattutto in ambiti eticamente sensibili come la vita, la salute, la famiglia.
La petizione chiede di superare questa architettura, usando il grimaldello del finanziamento. Non si impone formalmente una legge unica, ma si crea un meccanismo che, di fatto, svuota le scelte nazionali: se uno Stato limita l’aborto, l’Europa paga perché lo si pratichi altrove. È una forzatura giuridica prima ancora che morale, che trasforma l’Unione da spazio di coordinamento a soggetto etico sovraordinato.
Colpisce, nel dibattito, la rimozione sistematica di una parola: embrione. O meglio, di una domanda: quando inizia la vita umana? Paolo Inselvini, tra i pochi a ricordarlo esplicitamente, ha detto che i diritti umani iniziano nel grembo materno. Non è una provocazione confessionale, ma una posizione filosofica e giuridica che ha attraversato la storia europea. Eppure, oggi, viene liquidata come residuo ideologico, mentre l’ideologia dominante si presenta come neutralità.
La reazione della COMECE, la commissione dei vescovi europei, non è stata una crociata ma un richiamo sobrio alla responsabilità istituzionale. Non solo in nome della dottrina cattolica — che resta chiara e coerente nel ritenere l’aborto un male grave — ma anche come cittadini europei preoccupati per una deriva che bypassa competenze nazionali e accende ulteriormente la polarizzazione. Il loro punto è semplice: aiutare le donne non significa normalizzare l’aborto come servizio sanitario essenziale, ma investire in politiche di sostegno, accompagnamento, protezione sociale, soprattutto per le più vulnerabili.
C’è poi un dato che pesa come un macigno: l’Iniziativa “One of Us”, la più firmata nella storia europea, che chiedeva la tutela della dignità dell’embrione umano, è stata ignorata dalla Commissione. Essa fu fortemente voluta e promossa dall’europarlamentare Carlo Casini di cui si parla oggi di possibile processo di canonizzazione.
Oggi, un’altra iniziativa popolare, di segno opposto, viene invece accolta e rilanciata. È difficile non vedere qui un doppio standard: la democrazia partecipativa funziona quando va nella direzione “giusta”.
La questione non è negare la complessità delle situazioni individuali, né ignorare la sofferenza reale che accompagna molte gravidanze difficili. La questione è un’altra: trasformare l’aborto in diritto fondamentale significa dire qualcosa di definitivo sull’uomo, sulla donna, sul corpo, sulla vita nascente. Significa scegliere una visione antropologica e imporla come fondamento comune.
Ora la palla passa a Commissione e Consiglio. Entro il 2 marzo 2026 si capirà se l’Europa avrà il coraggio di fermarsi, riflettere e rispettare la pluralità che la costituisce, o se preferirà blindare una scelta ideologica sotto il linguaggio rassicurante dei diritti. In gioco non c’è solo una norma. C’è l’anima politica dell’Europa.
