Anas al Sharif, volto di Al Jazeera è stato ucciso insieme ad altri colleghi

Uccidere un giornalista in un’area di conflitto non è un “effetto collaterale”: è un atto proibito dal diritto internazionale umanitario. Le Convenzioni di Ginevra e i Protocolli aggiuntivi sanciscono che i reporter civili in zona di guerra godono della stessa protezione dei civili, salvo il caso in cui prendano parte direttamente alle ostilità.

Anas al Sharif non era un combattente: era un cronista che raccontava la fame, le distruzioni, i volti. E per questo era diventato un bersaglio.

Libertà di stampa sotto assedio

Dal 7 ottobre 2023, Israele ha messo in atto un embargo informativo sulla Striscia di Gaza, impedendo l’ingresso ai giornalisti stranieri e colpendo le strutture di media locali. L’ONU, l’UNESCO e il Committee to Protect Journalists hanno più volte denunciato questa strategia come una violazione grave della libertà di informazione.

Il segretario generale delle Nazioni Unite ha ricordato che «l’impunità per i crimini contro i giornalisti è una piaga» e che «la protezione dei reporter è un fondamento della democrazia internazionale».

Ma la catena di omicidi mirati a Gaza mostra che, in questa guerra, raccontare la verità può equivalere a firmare la propria condanna.

La narrativa del nemico

L’accusa di essere “terrorista” è stata la formula usata dall’esercito israeliano per giustificare l’eliminazione di al Sharif. Un’accusa che Al Jazeera ha respinto come frutto di documenti falsificati, e che osservatori indipendenti considerano parte di una strategia consolidata: criminalizzare la fonte d’informazione per renderne accettabile l’eliminazione.

Non è un caso isolato. Lo stesso è avvenuto con Shireen Abu Akleh, veterana di Al Jazeera, uccisa a Jenin nel 2022 mentre indossava chiaramente il giubbotto “PRESS”. Anche allora, la prima reazione ufficiale israeliana fu il tentativo di attribuirle legami con i miliziani. Le inchieste giornalistiche internazionali dimostrarono il contrario.

Un prezzo altissimo

In 22 mesi, oltre 200 giornalisti palestinesi sono stati uccisi nei raid israeliani a Gaza. Mai, in nessun altro conflitto contemporaneo, si è registrata una mortalità così alta nella categoria.

L’obiettivo non è solo militare: è narrativo. In un mondo dove le immagini e le testimonianze determinano la percezione della guerra, controllare la narrazione significa controllare il giudizio dell’opinione pubblica.

L’appello

Chi oggi saluta Anas al Sharif non può fermarsi alla commozione. Serve un’azione coordinata della comunità internazionale per indagare indipendentemente su ogni uccisione di giornalisti, sospendere la fornitura di armi a chi viola sistematicamente il diritto internazionale umanitario e garantire corridoi sicuri per la stampa.

Se il silenzio diventa norma, se il giornalismo diventa un crimine, allora la guerra avrà vinto anche fuori dal campo di battaglia.

E quella, per chi crede nella libertà, è una sconfitta inaccettabile.

Tutte le fonti concordano sul fatto che il conflitto Israele–Gaza dal 2023
sia il più letale per la stampa nella storia moderna,
con un tasso di mortalità dei giornalisti senza precedenti.

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