L’approvazione definitiva della legge che introduce nel codice penale il reato autonomo di femminicidio è arrivata mentre il mondo intero ricordava le vittime della violenza contro le donne. Un tempismo che non può essere casuale e che, in Italia, assume un peso ulteriore: nel nostro Paese, secondo l’Istat, una donna viene uccisa ogni tre giorni. Numeri che non possono lasciare indifferenti, numeri che gridano l’urgenza di un cambiamento.

Il Parlamento ha scelto di rispondere con una norma severa: l’ergastolo nei casi più gravi e pene da 15 a 24 anni quando sussistono attenuanti. Una scelta sostenuta da larga parte dell’arco politico e salutata dal presidente del Consiglio Giorgia Meloni come un segno di “coesione nazionale contro la barbarie”.

Eppure, al di là del consenso parlamentare, resta necessario interrogarsi: una legge, da sola, può invertire una deriva culturale che si consuma soprattutto nei legami affettivi?

Una ferita che nasce altrove

Che il femminicidio sia ora un reato specifico è un passo importante. Riconoscere la matrice di dominio, controllo e possesso che accompagna molti omicidi di donne significa accendere una luce su ciò che avviene prima della tragedia: la progressiva cancellazione della libertà dell’altra persona, l’idea che la donna sia qualcosa da trattenere, controllare, non un soggetto libero e inviolabile.

Ma una legge interviene dopo.

Dopo il sopruso, dopo le minacce, dopo la spirale della violenza.

La domanda cruciale è dunque un’altra: da dove nasce questo male?

Quale terreno sociale, familiare, educativo lo rende possibile?

E come bonificarlo?

Punire non basta: serve una cultura della relazione

Le opposizioni hanno sostenuto la legge, ma hanno ricordato un punto fondamentale: la repressione è necessaria, ma non può essere la sola risposta.

Non si previene la violenza se non si educa alla relazione, al rispetto del corpo e della libertà dell’altro, all’affettività non possessiva.

Su questo terreno, purtroppo, l’Italia è ancora indietro.

Siamo uno dei pochi Paesi europei dove l’educazione affettiva e relazionale non è ancora strutturale nei percorsi scolastici. E dove, anzi, si rischia di indebolirla ulteriormente con proposte di limitazione e obbligo di consenso dei genitori.

Ma come si può affrontare un problema che nasce (anche) da modelli culturali distorti senza un investimento educativo serio?

Una scuola che non insegna la reciprocità, il rispetto, la gestione delle emozioni, è una scuola che lascia spazio ad altre “agenzie educative”: social network, serie televisive, modelli tossici di maschilità.

Le voci critiche: il rischio del simbolismo penale

Alcuni giuristi, magistrati e associazioni impegnate da anni nel contrasto alla violenza di genere hanno sollevato un timore non secondario: trasformare il femminicidio in reato autonomo rischia di rimanere un gesto simbolico, utile sul piano culturale ma inefficace su quello della prevenzione.

È un timore da non liquidare.

Nessuna norma può sostituire ciò che si costruisce nel tempo: le politiche sociali, la formazione degli operatori, il sostegno ai centri antiviolenza, il lavoro capillare nei territori, la capacità delle istituzioni di intercettare i segnali prima che sia troppo tardi.

La legge punisce il crimine consumato.

Ma la violenza vera, quella che uccide prima di uccidere, avviene molto prima: nelle parole denigratorie, nella gelosia trasformata in possesso, nell’isolamento, nei ricatti, nel controllo.

Eppure, un passo avanti c’è. E va riconosciuto

Detto questo, sarebbe ingiusto non riconoscere che l’introduzione del reato specifico ha un valore.

Non solo rende più chiara e severa la risposta dello Stato, ma tiene insieme una dimensione giuridica e una culturale: nominare il femminicidio significa riconoscere che dietro quei delitti non c’è solo violenza, ma un sistema di disparità radicate.

È un segnale. Un messaggio rivolto a tutta la società, a partire dagli uomini:

“Nel legame affettivo non esiste diritto di possesso”.

Un messaggio che, come credenti, non possiamo che condividere: la dignità è intoccabile, la libertà dell’altro è un bene sacro.

Il cammino da fare: prevenzione, educazione, responsabilità comune

All’orizzonte c’è un altro passo importante e bipartisan: l’introduzione del principio del consenso nella definizione di violenza sessuale. Un tema su cui maggioranza e opposizione sembrano finalmente convergere.

È un segno che qualcosa si muove.

Ma il lavoro resta immenso: educazione nelle scuole; sostegno alle famiglie fragili; formazione degli uomini autori di violenza; lotta ai linguaggi tossici; politiche culturali che restituiscano pari dignità.

La Chiesa, nel suo magistero, ricorda che la violenza sulle donne non è solo un crimine: è una ferita antropologica, uno sfiguramento dell’idea stessa di amore e relazione.

La legge approvata è un passo, non l’arrivo.

Serve. Era attesa. Dà una cornice più chiara alla giustizia.

Ma la vera conversione — quella che salverà davvero vite — sarà culturale e spirituale: riguarda il modo in cui cresciamo i ragazzi, il modo in cui viviamo l’affetto, il modo in cui guardiamo all’altro come un volto e non come un possesso.

Solo quando la relazione sarà vissuta come dono e mai come dominio, allora davvero avremo tolto terreno alla violenza.

E allora, forse, non avremo più bisogno di nuove leggi. Solo di nuove coscienze.