In Francia scoperta una nuova forma di abuso verso le donne. Non più o non solo il ricatto sessuale per un posto di lavoro, ma il diuretico per umiliarla al colloquio. Inchiesta in corso. Chiesti risarcimenti al Ministero della Cultura.

C’è un dettaglio, in questa vicenda che arriva dalla Francia, che lascia attoniti più delle cifre e delle accuse. Non è soltanto l’enormità del numero – oltre 200 donne che denunciano lo stesso schema di abuso –, né la gravità del reato contestato. È il luogo.

Una stanza di colloquio. Un ufficio pubblico. Un incontro che dovrebbe aprire possibilità di lavoro e fiducia.

È lì, nella normalità di un’occasione professionale, che per anni un alto funzionario del ministero della Cultura francese, oggi sotto indagine, avrebbe drogato candidate con un diuretico illegale per provocare vergogna, vulnerabilità, smarrimento. Non per derubarle, né per immobilizzarle. Ma per osservare, umiliare, dominare.

È una forma di violenza difficile perfino da immaginare. Una “sottomissione chimica” che non rapisce il corpo, ma la dignità.

La violenza che non riconosci perché non l’hai mai incontrata

Colpiscono le parole di una delle donne coinvolte: “Non sapevo neppure che esistesse questo tipo di attacco.”

E in questa frase si condensa il vuoto che ancora separa molte forme di violenza dai nostri strumenti culturali e legali.

Non tutto ciò che ferisce, umilia, annienta, ha già un nome. Non tutto ciò che è abuso viene riconosciuto come tale.

Oggi, la Francia sta facendo i conti con una realtà che si pensava relegata a contesti estremi: l’uso di sostanze per manipolare il corpo dell’altro, per togliergli dignità e libertà di scelta. È successo in ambito domestico, come mostrato dal processo Pelicot; adesso viene denunciato persino dentro colloqui istituzionali.

La violenza cambia forma, ma resta fedele alla sua logica: rendere l’altro un oggetto.

Il potere che da servizio diventa dominio

Colpisce anche il profilo dell’accusato: un dirigente pubblico, formato per servire lo Stato, per selezionare talenti, per costruire comunità di lavoro.

E invece – secondo le accuse – avrebbe usato quel ruolo come arma: non per aprire porte, ma per chiuderle; non per far crescere, ma per degradare.

Qui non è in gioco soltanto un comportamento individuale. È l’idea stessa di istituzione che deve interrogarsi. Dov’è stata la vigilanza?

Com’è possibile che per quasi un decennio nessuno abbia collegato i segnali, ascoltato le prime denunce, percepito la sofferenza delle persone?

La giustizia farà il suo corso.

Ma la domanda sull’ambiente che ha permesso che questo accadesse resta.

La seconda ferita: la lentezza della giustizia

Molte delle donne coinvolte lo denunciano con lucidità amara: attendono un processo da anni.

“È come essere vittimizzate di nuovo”, dicono.

E qui si apre un tema che riguarda tutti i sistemi democratici: una giustizia che arriva troppo tardi non è più giustizia, ma un’altra forma di sofferenza.

La lentezza che consuma, che fa riemergere continuamente il trauma, che sospende la vita, i progetti, la fiducia.

Una democrazia matura non può permettersi di lasciare le vittime in attesa così lunga da trasformare la speranza in amarezza.

Il corpo dell’altro non è un terreno di sperimentazione

In questo caso, come in altri simili, emerge un tratto che non possiamo ignorare: la violenza nasce spesso dal bisogno di controllo, di dominio simbolico, di annullamento.

Qui non ci sono relazioni affettive, né vendette, né conflitti professionali. C’è la volontà di provocare umiliazione, imbarazzo, dipendenza.

In un mondo che iper-sessualizza e al tempo stesso banalizza il corpo, siamo chiamati a ricordare qualcosa di radicale:

il corpo dell’altro è inviolabile perché è luogo della sua dignità e della sua libertà.

È spazio di relazione, non di esperimento. È sacramento dell’incontro, non materiale di consumo.

Una responsabilità che riguarda anche noi

Vicende come questa non sono “problemi francesi”.

Sono allarmi che suonano anche da noi, in Italia, nel tempo in cui discutiamo di femminicidio, di educazione affettiva, di abusi di potere.

Ci ricordano che la violenza non nasce sempre nei margini della società: talvolta germoglia nei luoghi rispettabili, nelle stanze dei colloqui, nelle istituzioni culturali, nelle aziende, nelle parrocchie, nei luoghi dove le persone cercano fiducia.

E ci dicono che ogni sistema – politico, ecclesiale, educativo – deve avere strumenti concreti di ascolto, protezione, prevenzione.

Il volto delle vittime: la speranza di non sentirsi più sole

Molte delle donne coinvolte hanno ripreso a lavorare, altre hanno cambiato città o Paese.

Quasi tutte raccontano la stessa cosa: la vergogna, l’auto-colpevolizzazione, la difficoltà a riconoscersi vittime.

E poi la liberazione, quando finalmente un poliziotto, un magistrato, una giornalista, un’altra donna ha detto: “No, non è colpa tua.”

In ogni società, la guarigione inizia da qui: dalla capacità di guardare negli occhi chi è stato ferito e restituirgli dignità.

Non bastano le sentenze – necessarie.

Servono comunità che non abbandonano, istituzioni che non minimizzano, media che non spettacolarizzano.

Il caso francese mette a nudo una verità dura:

la violenza contro le donne assume forme nuove e silenziose, e l’unico antidoto è una cultura della cura, della vigilanza e della responsabilità condivisa.

Come credenti, diciamo spesso che ogni persona è “fine e mai mezzo”.

Eventi come questo ci ricordano che non è una formula astratta, ma la frontiera su cui si misura la civiltà di un Paese.

Il corpo dell’altro non è uno spazio da usare. È una storia da rispettare. È un mistero da custodire.