C’è un luogo simbolico che dice molto del nuovo Medio Oriente: il castello crociato di Beaufort, affacciato sul Litani. Sotto, una valle di ulivi e vigneti; sopra, il ronzio dei droni israeliani che da mesi scandiscono la vita del Sud del Libano. In questo scenario, colpi mirati contro quadri di Hezbollah, villaggi sciiti svuotati, città come Khiam ridotte a scheletri di cemento.
È la fotografia di un equilibrio instabile: Israele colpisce quando e dove vuole lungo il confine nord; il Libano resta uno Stato semiparalizzato, con un esercito sottofinanziato; Hezbollah, indebolito ma ancora armato fino ai denti, sopravvive come milizia e come potenza militare “ombra”.
Dentro questo quadro, per quanto possa risultare scomodo dirlo, Hezbollah è oggi anche un argine de facto contro eventuali mire espansionistiche israeliane verso nord, comprese le acque libanesi ricche di gas, che un esercito nazionale in queste condizioni non sarebbe in grado di difendere.
Un “Israele imperiale” tra sicurezza e proiezione di potenza
Da anni diversi analisti mediorientali descrivono Israele come una potenza regionale ormai “imperiale”: capace di colpire obiettivi considerati ostili in Libano, Siria, Gaza, Iran, Yemen, perfino in territori del Golfo, con una dottrina di attacchi preventivi divenuta prassi e non più eccezione.
La superiorità militare israeliana è schiacciante: spesa per la difesa ben oltre i 20 miliardi di dollari l’anno, ricerca e sviluppo militare da sola superiore all’intero bilancio della difesa libanese, capacità aeree, navali e cibernetiche di livello globale.
A questa proiezione di forza si aggiunge una dimensione economico-strategica: il gas offshore. Con la messa in produzione dei giacimenti di Tamar, Leviathan e Karish, Israele è diventato un attore energetico chiave nel Mediterraneo orientale.
L’accordo marittimo del 2022 con il Libano – mediato dagli USA – ha definito i confini delle rispettive zone economiche esclusive, lasciando Karish a Israele e attribuendo a Beirut il diritto di esplorare il giacimento di Qana.
Formalmente, una composizione diplomatica. Ma a sud del confine, nessuno dubita che, in caso di vuoto di potere a Beirut, Israele saprebbe come approfittare della situazione: per ragioni di sicurezza, certo, ma anche di controllo delle risorse energetiche e delle acque.
Il Libano: uno Stato allo stremo e un esercito senza mezzi
Sul fronte opposto, il Libano vive una delle crisi economiche più profonde della storia contemporanea: valuta crollata, servizi pubblici quasi al collasso, povertà diffusa. L’esercito libanese – teoricamente il solo legittimato a detenere le armi – è pagato in moneta svalutata: negli anni recenti lo stipendio di un soldato è sceso a poche decine di dollari, tanto che ONU, USA e Qatar sono intervenuti con contributi diretti per “integrare” le paghe dei militari e impedire il collasso delle forze armate.
Uno studio recente stima che il budget della difesa libanese per il 2025 sia intorno agli 800 milioni di dollari, con il 67% assorbito dagli stipendi e appena il 3% disponibile per addestramento, modernizzazione ed equipaggiamento. Per confronto, Israele spende ogni anno oltre 5 miliardi di dollari solo in ricerca e sviluppo militare.
È evidente: il Libano non ha oggi un esercito in grado di fungere da reale deterrente di fronte a un’eventuale operazione militare israeliana fino al Litani o in direzione delle sue acque territoriali.
Hezbollah: milizia controversa, ma anche deterrente reale
In questo vuoto di sovranità effettiva, si inserisce il paradosso Hezbollah.
Hezbollah è, insieme, partito politico, milizia armata e principale proxy di Teheran nel Mediterraneo. È classificato come organizzazione terroristica da Stati Uniti e altri Paesi occidentali; è responsabile di attentati e di un uso spesso spregiudicato delle armi; ha trascinato il Libano in guerre devastanti. Allo stesso tempo, è radicato in larga parte della comunità sciita e gestisce una rete di servizi sociali che lo rende, agli occhi di molti, più presente dello Stato.
Militarmente, nonostante i colpi subiti nei conflitti con Israele, Hezbollah resta una forza considerevole: si stima disponga oggi di decine di migliaia di combattenti e di un arsenale che va da 70.000 a oltre 100.000 razzi e missili, in gran parte forniti o finanziati dall’Iran.
La Repubblica islamica, attraverso i Pasdaran, continua a destinare al movimento somme che possono raggiungere i 700 milioni – 1 miliardo di dollari l’anno, aggirando le sanzioni con reti bancarie parallele e traffici petroliferi.
Questa combinazione – Stato libanese debole, esercito povero, milizia ben armata e finanziata – produce un effetto che molti in Occidente faticano ad ammettere: oggi l’unico fattore che realmente dissuade Israele da un’avventura militare su vasta scala a nord, fino al Litani e oltre le acque libanesi, è la capacità di Hezbollah di infliggere danni seri al territorio israeliano.
È un equilibrio di paura, non di giustizia. Ma è un dato di fatto strategico: a fronte di un esercito nazionale poco efficace, è la potenza di fuoco di Hezbollah – non la bandiera del Paese dei Cedri – a fungere da diga armata contro un “Israele imperiale” tentato di trasformare la superiorità militare in ridisegno unilaterale dei confini.
L’ambiguità che non possiamo ignorare
Per uno sguardo cristiano e per una coscienza democratica, questa situazione è lacerante.
La Dottrina sociale della Chiesa e il diritto internazionale chiedono il monopolio della forza nelle mani dello Stato, la progressiva riduzione degli armamenti, il rifiuto della logica delle milizie.
Eppure, in Libano, la cronaca ci dice che:
- lo Stato non è in grado di difendere da solo il proprio territorio, né di proteggere in modo credibile le sue risorse marittime;
- il disarmo unilaterale di Hezbollah, nelle condizioni attuali, significherebbe di fatto consegnare il Paese alla libertà d’azione di Israele, che ha dimostrato di non avere remore ad agire oltre confine quando percepisce una minaccia;
- allo stesso tempo, la permanenza di una milizia iper-armata, legata a una potenza regionale come l’Iran, mina dallo stesso interno la sovranità libanese e trascina il Paese nei giochi altrui.
È un paradosso doloroso: ciò che oggi protegge il Libano dal rischio di vedere compromesse le sue acque e i suoi confini è proprio ciò che impedisce allo Stato di essere pienamente sovrano.
Che cosa potrebbe voler dire “argine giusto”
Da un punto di vista etico, non possiamo benedire le armi di Hezbollah né accettare l’idea che la sicurezza di un popolo dipenda da un attore armato non statale, legato a un altro Paese. Ma possiamo – e dobbiamo – leggere con lucidità come si sono strutturati i rapporti di forza: un Israele sempre più proiettato a difendere i propri interessi energetici e strategici oltre i propri confini; un Libano povero e frammentato, con un esercito che sopravvive grazie agli aiuti stranieri; una milizia sciita ben equipaggiata, che funziona di fatto come “argine armato” e deterrente, ma a prezzo di una costante instabilità interna e regionale.
L’unica via d’uscita davvero umana non può essere né la vittoria totale di una delle parti, né il congelamento indefinito di questo equilibrio di terrore. Per il Libano, significherebbe:
- Rafforzare seriamente l’esercito nazionale, non solo con stipendi d’emergenza ma con un piano strutturale di equipaggiamento e addestramento, perché sia il solo titolare legittimo della difesa dei confini e delle acque.
- Legare ogni percorso di disarmo graduale di Hezbollah a garanzie internazionali reali sui confini terrestri e marittimi, affinché nessuno possa approfittare della debolezza del Paese per ridefinire mappe e sfruttare risorse.
- Spezzare la dipendenza strutturale dall’Iran, non con slogan, ma offrendo a una parte importante della popolazione sciita alternative economiche, politiche e sociali credibili rispetto al “welfare armato” del Partito di Dio.
Dire che Hezbollah è, oggi, un argine contro eventuali mire espansionistiche di Israele a nord non significa legittimare il suo arsenale né assolverne la storia. Significa riconoscere un fatto strategico: in un contesto segnato da uno squilibrio di forze abissale, l’unico freno concreto a un “Israele imperiale” resta, paradossalmente, la presenza di una milizia che nessuno Stato è riuscito (o ha voluto) integrare o superare.
Per un giornale come Mediafighter, la domanda vera non è se questo argine esista – esiste. Ma come trasformarlo, nel tempo, in un argine giusto: non di missili puntati, ma di diritto internazionale rispettato, di confini riconosciuti, di esercito nazionale credibile, di vicinato tutelato da accordi e non da droni.
Finché questo non accadrà, il Paese dei Cedri resterà sospeso: protetto e prigioniero allo stesso tempo, tra un Israele sempre più armato e un Hezbollah che, anche quando fa da diga, resta pur sempre un fiume di armi in piena.
