Londra, l’ombra lunga dell’asilo perduto

C’è un’immagine che precede ogni discorso sull’Inghilterra: un’isola battuta dal vento, rifugio nei secoli di rivoluzionari sconfitti, poeti in esilio, dissidenti braccati dalle tirannie. Qui trovarono riparo Chateaubriand, Louis-Napoléon Bonaparte, Victor Hugo. Londra come porto sicuro, come luogo dove l’habeas corpus non era una formula giuridica, ma una promessa di dignità.

È a questa tradizione che il 17 novembre 2025 il governo lavorista di Keir Starmer ha voltato le spalle presentando un piano che restringe l’asilo, irrigidisce i controlli, riduce i diritti sociali dei richiedenti protezione.

Non sorprende la durezza — l’Europa ormai vi è abituata — quanto il fatto che avvenga proprio qui, nella terra che aveva fatto del diritto a non essere fermati senza motivo la propria firma morale.

Il Regno Unito sembra oggi mettere in scena le sue antiche libertà come si fa con un cimelio: esiste, ma non coinvolge più nessuno.

Un Paese abituato a controllarsi, ma non a chiudersi

Che Londra difendesse le sue frontiere non è mai stato un mistero. Non ha aderito a Schengen, si è sfilata dal sistema di Dublino con il Brexit, ha sempre gestito in autonomia l’ingresso dei migranti.

Eppure gli accordi più rigidi degli ultimi vent’anni raccontano tutt’altro: una parte crescente dei controlli è stata delegata alla Francia, dal Touquet del 2003 fino all’intesa del 2025, quel meccanismo “uno per uno” che sembra una partita doppia di vite umane.

La narrativa della sovranità sbandierata dalla politica non coincide con la pratica: la frontiera inglese è ormai un muro costruito in Francia, non *dall’*Inghilterra.

L’illusione della forza

Il famigerato piano per deportare richiedenti asilo in Rwanda, concepito sotto i conservatori, è stato archiviato dal governo Starmer. Non per improvvisa misericordia, ma perché ingiustificabile e inapplicabile.

Tuttavia il nuovo corso non è più tenero: diritti sociali ridotti, status di rifugiato reso temporaneo, possibilità di revoca dell’asilo quando si ritiene che “la crisi d’origine sia cessata”.

Provvedimenti che rassicurano una parte dell’opinione pubblica e parlano all’elettorato corteggiato da Nigel Farage.

Ma non cambiano nulla nei flussi reali. Calais resta un imbuto. Le partenze via mare continuano.

E nel tratto più breve della Manica, 32 chilometri di acqua gelida, nel 2024 hanno perso la vita 76 persone.

La politica annuncia fermezza, il mare continua a consegnarci la verità dei corpi.

Due anime che non si parlano

Il Regno Unito vive in un contrasto permanente.

Da un lato la sua tradizione liberale: niente controlli d’identità, piena partecipazione politica per i cittadini del Commonwealth, una società abituata alla diversità.

Dall’altro un linguaggio politico sempre più securitario, alimentato dall’idea che la frontiera insulare sia fragile e minacciata.

Sono due anime che da tempo non si riconoscono più.

Londra resta un approdo naturale per chi fugge perché parla inglese, perché ha parenti già integrati, perché conosce reti migratorie che risalgono all’epoca coloniale.

Ma la retorica politica pretende di negare ciò che la storia ha reso inevitabile.

L’asilo come spettacolo

La studiosa Catherine Wihtol de Wenden ha definito la nuova politica un vero “teatro”.

Una messa in scena più che un reale strumento di governo. Si creano annunci, non soluzioni.

Fuori dalla luce dei riflettori restano: i corridoi migratori consolidati, i settori economici che dipendono da lavoratori stranieri, le reti familiari del Commonwealth, la memoria di un Paese che per secoli ha accolto chi non aveva più un posto in cui stare.

Il problema non è proteggere le frontiere: è dimenticare chi si è sempre stati.

Un’isola che cambia pelle

Il piano Starmer non chiude il Regno Unito, ma lo rende più inquieto, più sospettoso, meno accogliente.

La patria dell’habeas corpus oggi appare più preoccupata di non perdere elettori che di non perdere se stessa.

Resta una domanda sospesa: può un Paese che si pensa globale rinunciare alla sua vocazione storica all’asilo?

È possibile contenere, per legge, ciò che secoli di storia hanno reso parte della propria identità?

L’Inghilterra che accolse gli esuli dell’Ottocento, gli antifascisti del Novecento, i dissidenti dell’Est, oggi compila liste e restrizioni.

Non è una questione di numeri: è una questione di anima.

L’isola davanti allo specchio

L’immagine finale è questa: non più l’isola rifugio, ma l’isola che teme l’arrivo di chi bussa.

Una trasformazione che parla soprattutto alle paure interne, più che alla realtà dei flussi.

Ma il mare non obbedisce ai decreti. Le barche non aspettano l’esito delle votazioni.

La disperazione non si redige in un comunicato stampa.

È lì, in quelle onde fredde tra Calais e Dover, che si misura la vera frontiera europea: non il confine geografico, ma quello morale.

Una cosa è certa: un’isola che si chiude perde sempre una parte della propria storia.

Perché la libertà — come l’asilo — ha bisogno di spazio per respirare.