Un monito che parla al mondo dei populisti
Ci sono giorni che sembrano scivolare via come tutti gli altri, e giorni che segnano un prima e un dopo. Il 22 novembre 2025 è uno di questi. All’alba, in un quartiere tranquillo di Brasilia, la Polizia Federale ha bussato alla porta dell’ex presidente Jair Bolsonaro. Non c’erano sirene, né clamori, né immagini studiate per il pubblico: su ordine del ministro Alexandre de Moraes, tutto doveva avvenire senza esposizione, con la dignità necessaria anche nei momenti più duri.
Eppure, proprio quella sobrietà è diventata simbolo.
Perché non è un uomo soltanto ad essere stato arrestato: è un certo modo di intendere il potere, la democrazia, la verità.
Specie in America Latina, ma non solo.
Un arresto che non nasce dalla vendetta, ma dalla responsabilità
La prigione preventiva arriva dopo una lunga catena di fatti, prove e scelte politiche che hanno cercato — apertamente o sotterraneamente — di rovesciare l’ordine costituzionale.
Dalle pressioni sui militari ai dubbi insinuati sulle urne elettroniche, dalle riunioni per ipotizzare un intervento contro il Tribunale Elettorale fino agli accampamenti che hanno alimentato l’immaginario del golpe.
La decisione dei giudici è stata il gesto di una democrazia ferita ma viva.
Non un atto di rivalsa, ma di cura delle proprie istituzioni.
È questo che colpisce: in Brasile, l’ordinamento ha reagito non con la forza degli oppressori, ma con la fermezza delle regole.
La destra reagisce, ma il Paese sembra diverso
La famiglia, i governatori più vicini, gli ex ministri: tutti gridano all’ingiustizia. Eppure non si vedono folle oceaniche in strada, né l’onda emotiva che caratterizzò altri momenti del bolsonarismo.
Il Paese — pur diviso, pur contraddittorio — ha fatto esperienza dell’8 gennaio, ha visto cosa genera la politica del sospetto, ha compreso quanto sia fragile una Repubblica quando qualcuno decide che la legge vale solo per gli altri.
Il Brasile è più consapevole.
Il significato dell’arresto, tuttavia, supera i confini del Brasile.
Parla alla politica globale, e soprattutto a quella parte del mondo che negli ultimi anni ha costruito la propria identità sul dubbio sistematico verso le istituzioni, sul primato dell’uomo forte, sulla tentazione di credere che la democrazia sia un ostacolo, non una risorsa.
il messaggio è chiaro: l’era dei leader che credono di essere più grandi delle istituzioni sta finendo.
La democrazia, oggi, non chiede uniformità politica: chiede fedeltà alla verità, al limite, alla legge.
La linea sottile tra politica e pericolo
Il Brasile di Lula non è perfetto, la giustizia brasiliana non è infallibile, la società non è pacificata.
Ma la decisione del Supremo dimostra che una democrazia riesce a sopravvivere quando smette di avere paura di chiamare le cose con il loro nome. Golpe è golpe. Violazione delle regole è violazione delle regole.
Incitare alla sovversione non è un’opinione: è un reato.
Per anni Bolsonaro ha giocato sul limite. Il limite, alla fine, ha risposto.
Un giorno che sarà ricordato
22 novembre 2025: una data che entrerà nei manuali non come una vendetta, ma come un momento di maturità.
Il giorno in cui un Paese ha smesso di chiedersi “che diranno i sostenitori?” ed è tornato a chiedersi “che cosa chiede la Costituzione?”.
È una domanda semplice, ma rivoluzionaria.
Una domanda che l’Occidente intero dovrà porsi nei prossimi mesi, mentre si avvicinano elezioni cruciali, discorsi incendiati, pulsioni populiste che promettono soluzioni facili e obbedienza immediata.
Il Brasile, con tutta la sua fragilità e la sua grandezza, ci ha offerto una risposta: la democrazia non è mai garantita, ma può essere difesa.
E, per farlo, serve una sola cosa: il coraggio di dire “basta” quando basta è arrivato davvero.
