Europa: soldi comuni, affari per pochi
In questi giorni si è registrata una scena che merita riflessione: mentre l’Europa afferma di mobilitare risorse significative per sostegno all’Ucraina, è in realtà la Francia quella che spicca per un accordo miliardario con Kiev — fino a 100 Rafale e sistemi di difesa missilistica SAM-T da fornire nei prossimi anni. Questa dinamica solleva tre grandi interrogativi: chi paga, chi vince, chi consegna.
Chi paga
L’Europa dice “siamo con l’Ucraina”. Ma i dettagli mostrano che gran parte degli impegni sono lettere d’intenti piuttosto che contratti vincolanti. In particolare, il deal Rafale è sì firmato — ma la Francia ammette che mancano ancora risorse certe per realizzarlo. Questo porta a una prima verità: una parte dei fondi europei sarà destinata all’assistenza — ma un’altra parte substantialmente invece si traduce in ordini industriali diretti alla Francia.
Chi vince
La Francia ottiene una doppia vittoria: da un lato consolida la propria industria degli armamenti; dall’altro occupa una posizione di leadership geopolitica nel continuo sforzo europeo verso l’Ucraina. È un affare: se l’Ucraina acquista 100 Rafale, la Francia vende, produce, addestra. Per l’Europa, invece, molti Stati restano spettatori o donatori secondari. Questo crea un disequilibrio: Europa unita solo nelle dichiarazioni, divisa negli interessi.
Chi consegna
Il più grande interrogativo riguarda il “quando” e il “quanto”. Il contratto con la Francia prevede consegne diluite nel tempo – e pilotate su un orizzonte di dieci anni. Ma il conflitto non attende. La domanda diventa: faranno davvero la differenza questi caccia? Oppure è più una promessa strategica che un contributo tattico immediato?
Faranno la differenza? Dubbi tattici e strategici
Dal punto di vista tattico-operativo, i Rafale sono caccia multiruolo efficaci. Ma l’Ucraina oggi ha bisogno soprattutto di mezzi che funzionino ora, non tra anni. Sistemi antiaerei, logistica, rifornimenti, manutenzione — queste sono le emergenze. Inserire 100 Rafale richiede piloti formati, catena di rifornimento, infrastrutture. È un salto tecnologico e organizzativo impegnativo.
Strategicamente, però, l’accordo manda un segnale: un messaggio di lungo termine alla Russia e agli alleati europei che “l’Ucraina resta parte della nostra agenda”. E qui l’accordo gioca più sul piano politico che su quello immediato. Ma se il valore è solo quello di un segnale, allora rimane interrogativo quanto il “salto qualitativo” per Kiev sia reale oggi.
Quale moneta europea? Solidarietà o business nazionale?
Il caso francese porta a una riflessione più ampia: l’Europa che dichiara solidarietà rischia di diventare un insieme di soggetti nazionali che replicano affari nazionali. Se la Francia utilizza la crisi ucraina come motore industriale, l’Italia, la Germania, la Spagna si trovano a scegliere se essere partner o fornitori secondari.
Per l’Italia, questo significa interrogarsi: stiamo partecipando davvero alla costruzione della difesa europea o stiamo lasciando che altri guidino e guadagnino? E se sì, a quale prezzo in termini di autonomia strategica?
È un male se questa realtà viene presentata come “Europa unita” quando in realtà si tratta di affari nazionali dentro una cornice comune.
Il rischio è che l’Ucraina attenda aiuti tangibili e immediati, mentre i contratti si sviluppano lentamente, e che l’Europa si fermi alle promesse mentre il conflitto continua. Se il contributo francese si tradurrà in un reale aumento della capacità ucraina, allora questo accordo sarà storico. Ma se rimane simbolico, finirà per accentuare la frattura tra ciò che l’Europa dice e ciò che riesce a fare.
