L’ex premier ritenuta responsabile delle violenze popolari nel 2024 è rifugiata in India

Il Bangladesh si risveglia davanti a una sentenza che pesa come una macina sul suo presente e sul suo futuro. Il Tribunale internazionale dei crimini di Dhaka ha condannato a morte l’ex premier Sheikh Hasina, ritenuta responsabile delle violenze che, nell’estate del 2024, segnarono il crollo del suo regime. Una decisione destinata a dividere, a far discutere, a interrogare le coscienze. Perché nelle pieghe di questo verdetto non c’è soltanto un capitolo giudiziario: c’è la lunga fatica di un Paese che cerca ancora un equilibrio tra autoritarismo e democrazia, tra vendetta e giustizia, tra memoria e futuro.

Hasina, oggi settantottenne, non era presente in aula. È rifugiata in India da quando migliaia di manifestanti occuparono la sua residenza, costringendola alla fuga. La corte l’ha giudicata in contumacia per crimini contro l’umanità: una sentenza severissima, che attribuisce all’ex premier ordini diretti e indiretti che avrebbero portato all’uccisione di centinaia di civili. Altri due uomini del suo cerchio di potere—un ex ministro e un ex capo della polizia—sono stati anch’essi riconosciuti colpevoli. L’immagine che emerge è quella di un sistema verticale, impermeabile alle proteste, pronto a rispondere con la forza alla contestazione popolare.

Ma per comprendere la portata di questa decisione occorre guardare oltre le carte processuali. Occorre ascoltare il Paese che, nell’agosto 2024, portò in strada una protesta senza precedenti: studenti, lavoratori, fedeli, intellettuali, persone comuni che sentirono la misura colma. Quel giorno, affermano in molti, il Bangladesh “ha già pronunciato il suo verdetto”: il rigetto di un potere considerato distante, opaco, incapace di riconoscere il limite.

C’è però un punto essenziale che distingue la rabbia di una folla dalla responsabilità di un tribunale. E il tribunale, nel suo linguaggio formale, manda un messaggio preciso: nessun leader, per quanto radicato nella storia nazionale, può ritenersi immune dalle conseguenze delle proprie scelte quando queste provocano sofferenza ingiusta. È un messaggio che parla non solo al Bangladesh, ma a tutta la regione, spesso attraversata da tentazioni autoritarie che tengono in ostaggio i processi democratici.

Eppure, anche di fronte a una sentenza così netta, la domanda che rimbalza tra Dhaka e Delhi, tra gli analisti e le strade, è più complessa: come si concilia la ricerca di giustizia con la necessità di costruire una riconciliazione? Come si evita che la punizione, anche quando prevista dalla legge, si trasformi in un ulteriore capitolo di divisione nazionale? Il dibattito si concentra soprattutto sulla pena di morte, tuttora prevista e applicata in Bangladesh. Una pena che, al di là del caso specifico, rimette al centro una questione che Avvenire non manca mai di segnalare: la sacralità della vita e il rifiuto di ogni forma di violenza istituzionalizzata.

Il destino politico di Hasina sembra ormai segnato: anche gli osservatori più vicini alla Awami League ammettono che la sua stagione è conclusa. Diverso, però, è il destino del suo partito, storico protagonista della vita politica bengalese. La mappa del consenso, dopo la rivolta, è frammentata. E la vera prova arriverà con le elezioni di febbraio, le prime dopo il crollo del governo. Sarà allora che il Bangladesh misurerà la propria maturità istituzionale: se saprà trasformare una stagione di dolore in una stagione di rinnovamento.

Resta infine la posizione dell’India, che ora si trova con una ex premier condannata nel suo territorio e con un vicino che ne chiede la restituzione. Delhi ha sempre guardato al Bangladesh come a un partner strategico, ma il pragmatismo rischia ora di scontrarsi con il peso morale e diplomatico della sentenza. Una scelta, qualunque essa sia, avrà conseguenze profonde.

La giustizia, per essere tale, non può ridursi a un atto punitivo. Deve illuminare le colpe, ma anche aprire spazi nuovi di convivenza. Nel caso di Sheikh Hasina, il Bangladesh sembra aver voluto dichiarare che nessuna autorità è sopra la vita dei suoi cittadini. Ma ora è chiamato a un passo ulteriore: trasformare questo verdetto non in una resa dei conti, bensì in una promessa. La promessa di un Paese che vuole liberarsi dalle ombre, senza tradire quella dignità umana che non può essere sacrificata neppure al nome della giustizia.