Due anni fa, il 7 ottobre 2023, l’orrore esplose in Israele. L’attacco terroristico di Hamas, preparato con cinismo e fanatismo, colpì civili inermi, famiglie, bambini, giovani a un concerto. Fu una barbarie disumana, un abisso morale che nessuna causa politica o religiosa potrà mai giustificare. Ma, come ha ricordato il cardinale Pietro Parolin, «è altrettanto inaccettabile ridurre le persone a vittime collaterali». La rappresaglia israeliana, per vastità e durata, ha trasformato Gaza in un cimitero e ha travolto ogni limite della proporzionalità.
In questi due anni la guerra ha divorato non solo vite — decine di migliaia di morti, in gran parte civili — ma anche l’anima di due popoli. Israele ha perso sicurezza e coscienza di sé, mentre Gaza è divenuta una distesa di macerie e disperazione. Eppure, come ammonisce il Segretario di Stato vaticano, «non basta dire che è inaccettabile quanto avviene e poi permettere che avvenga». L’indifferenza della comunità internazionale, la diplomazia paralizzata, i governi che condannano con le parole ma continuano a fornire armi: tutto questo fa parte della stessa tragedia.
È innegabile che Benjamin Netanyahu, sotto pressione politica e giudiziaria già prima del 7 ottobre, abbia tratto da questa guerra una sorta di sospensione politica, quasi un salvacondotto morale costruito sul sangue dei suoi e dei palestinesi. Le commissioni d’inchiesta interne hanno già documentato falle, allarmi ignorati, superficialità nei servizi di sicurezza: segnali che Hamas preparava qualcosa di enorme, sottovalutati per calcolo o per arroganza.
Ma al di là delle responsabilità contingenti, resta il fallimento collettivo di un mondo incapace di difendere la vita umana come valore supremo. L’attacco di Hamas non ha liberato Gaza, l’ha condannata. Israele non ha vinto, ha perso il suo volto più umano. E la comunità internazionale ha perso la voce.
In questo scenario cupo, le parole del cardinale Parolin suonano come un appello morale e politico insieme: «La legittima difesa non può essere cieca vendetta. Non si può bombardare in nome della sicurezza. È inaccettabile ridurre persone umane a vittime collaterali». Il segretario di Stato invita a un risveglio delle coscienze, a non assuefarsi al conteggio quotidiano dei morti, a riscoprire il valore dell’umanità prima ancora delle strategie.
Eppure, accanto al dolore, qualcosa di nuovo si muove. Le piazze del mondo — spesso composte da giovani, credenti e non credenti — gridano pace, rifiutano il linguaggio dell’odio, si ribellano all’indifferenza. L’antisemitismo, tornato a serpeggiare in molte nazioni, è «un cancro da estirpare», dice Parolin, ma anche la demonizzazione dei palestinesi è una forma di disumanità.
Dopo l’11 settembre, il mondo non imparò la lezione della misura. Dopo il 7 ottobre, rischia di non imparare quella della giustizia. Prevenire il terrorismo non è solo reprimere, ma cambiare le condizioni che lo generano; combatterlo sì, ma senza perdere il senso di umanità che fonda ogni diritto.
Oggi, ricordando le 1.200 vittime innocenti di quel giorno e i 67.000 palestinesi uccisi da allora, il modo più alto per onorarli è questo: non con la vendetta, ma con la giustizia. Non con il rumore delle armi, ma con il coraggio della pace.